Bernardo Caprotti: La vita è... sfidare tutto e tutti
Sara Morara per Panorama d'Italia
Economia

Bernardo Caprotti: La vita è... sfidare tutto e tutti

"La grande distribuzione? un mestiere molto difficile". In questa intervista dell'ottobre del 2014 Mr. Esselunga ci spiegava nei dettagli la sua filosofia esistenziale e aziendale. A Milano i funerali in forma privata

Circa 200 persone hanno partecipato lunedì mattina nella piccola chiesa di San Giuseppe, a due passi dalla Scala, nel centro di Milano, ai funerali Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, scomparso venerdì scorso all'età di 90 anni.

Ai funerali, voluti dalla famiglia in forma privata, hanno partecipato quasi esclusivamente i parenti e i collaboratori più stretti di Caprotti.
Nella chiesa barocca del '600, di cui il patron di Esselunga aveva finanziato il restauro del pavimento un paio di anni fa, era seduto anche il notaio Carlo Marchetti, nel cui studio dovrebbe aprirsi a giorni il testamento dell'imprenditore. "Il dolore va vissuto con serenità perché le anime dei giusti vanno nelle mani del Signore, che sono migliori delle nostre. Per cui non ti diciamo addio ma arrivederci, caro Bernando" ha detto Monsignor Maggioni.
"Quando vedrò un supermercato Esselunga pregherò per te, quando calpesterò questo pavimento restaurato pregherò per te. E tu da lassù di' una preghiera per me, per i familiari, gli amici, i collaboratori. A presto Bernardo".
La salma di Caprotti verrà tumulata nel cimitero di Albiate, in provincia di Monza, dove l'imprenditore era nato nel 1925.

Questa mattina, tutti gli store Esselunga d'Italia sono rimasti chiusi in segno di lutto.

Per ricordare la straordinaria personalità umana e di imprenditore di Bernardo Caprotti, proponiamo questa intervista rilasciata al direttore di Panorama Giorgio Mulè nell'ottobre del 2014, in occasione della tappa di Brescia di Panorama d'Italia. In un certo senso, una specie di testamento professionale.

Brescia, mercoledì 8 ottobre, inaugurazione della tappa di «Panorama d’Italia».
L’appuntamento con Bernardo Caprotti, che ha compiuto 89 anni martedì 7 ottobre, è fissato alle 17.30 al museo Santa Giulia. Il titolo dell’incontro è: «Una storia italiana». Perché Caprotti, per tutti mister Esselunga, ha scritto e continua a scrivereoggi pagine avvincenti di una storia imprenditoriale iniziata negli anni Cinquanta.
Convincerlo ad accettare l’invito non è stato facile: sono rare le apparizioni di Caprotti in pubblico. Per questo abbiamo deciso di proporvi alcune parti del nostro incontro.

Dottor Caprotti, entriamo subito nell’attualità e in quello che sta succedendo?

Io vi saluto e ringrazio per esservi disturbati per sentire un «vecchio» come me.

Non dica «vecchio» perché io l’ho vista poco fa utilizzare un iPhone con la padronanza e la velocità proprie di un ragazzo. Veniamo all’attualità. A Roma si discute di Jobs act: si sta facendo qualcosa di realmente utile per le aziende?

L’argomento è molto delicato, molto particolare e specifico anche del nostro Paese. L’articolo 18 è una cosa strana: garantisce. Il vero problema degli italiani è di essere garantiti, di trovare un posto da statale, di fare il bidello o l’usciere e di essere garantito fino alla pensione.
Questo toglie moltissimo alla competitività e alla competizione; il Paese ha scelto il «non sforzo», ha deciso che non bisogna fare fatica. I ragazzi non devono studiare perché altrimenti gli viene la scoliosi; i professori devono insegnare non troppo. Io ho un ricordo lontano… Quando ho fatto le medie e il liceo, per studiare ho fatto molte volte le 2 di notte. Io sono uno che ha fatto la parafrasi, a 14-15 anni, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. E me la sono scritta tutta in prosa, di notte. Questa è una cosa che oggi non sarebbe concepibile, perché oggi i bambini fanno fatica, caspita!, e c’è lo stress; gli italiani hanno scoperto lo stress e hanno scoperto che bisogna non stressarsi.
Ecco, l’articolo 18 fa parte del «non stress». Non tutti hanno bisogno dell’articolo 18: la maggior parte della gente non
sa neanche cosa sia. La maggior parte della gente lavora con passione, con buona volontà, con dedizione nelle nostre aziende. Poi c’è una fascia intermedia per cui l’articolo 18 magari farebbe muovere loro un po’ le terga.
Poi ci sono quelli per cui non c’è niente da fare: una piccolissima minoranza, quelli che una volta si chiamavano lavativi. Queste cose io le ho scritte in una lettera al carissimo amico Pier Luigi Bersani e francamente tutto questo dibattito mi disturba molto. Mi pare che Matteo Renzi voglia tentare di fare, ma non so se ci riuscirà.

Parlando dell’Italia e della libertà di impresa lei spesso coniuga i verbi al passato. Perché?

Noi negli anni Cinquanta e Sessanta lavoravamo 12 ore al giorno e non è morto nessuno. Poi sono arrivati i tempi moderni: meno stress. Oggi noi abbiamo ancora la libertà di lavorare, se non sbaglio, 40 ore la settimana. È triste, molto triste.

Parliamo del suo percorso professionale. Lei va in America, figlio d’imprenditori che si occupano di tessile, poi torna in Italia e lancia i supermercati. Perché?

Questa è una storia divertente. Perché? Perché la vita è fatta di scelte. La vita ti pone, per fortuna non tutti i giorni ma molto spesso, di fronte a un bivio: imboccare la direzione giusta non sempre è facile. C’è poi un altro fattore, irrinunciabile: il culo, mi scuso per l’espressione… potremmo chiamarlo «fattore C». Comunque, io vado in America e appena arrivo a Houston, in Texas, mi portano a fare la spesa in un supermercato. Quando sono tornato dall’America ci è stata proposta l’opportunità di entrare in questo business con Nelson Rockefeller, il figlio di colui il quale aveva «inventato» il petrolio. Ci proponeva di esportare in Italia l’esperienza dei supermercati.

Il suo obiettivo era quello di modernizzare il commercio. Sono entrato nel campo dei supermercati sapendo che cosa poteva essere: indubbiamente un enorme vantaggio. Il resto è stata tutta una combinazione di fattori. Fino a 42 anni ho lavorato nel tessile, poi mi sono messo a fare questo mestiere. Un mestiere molto più difficile di quanto la gente possa pensare, molto più complesso. Però è stato dovuto a qualche scelta e a una grande fortuna. Se no sarei stato anche io lì sulle rive del Lambro e anche l’industria tessile Caprotti sarebbe finita come tutte. La grande industria tessile non esiste più.

Lei, però, la fa troppo facile: va bene il «fattore C», però non si sta in un mercato che lei stesso definisce complicato come quello della grande distribuzione se non si ha l’intelligenza e l’umiltà di rinnovarsi. Io ho impressa un’immagine, nei suoi uffici, quella di un veliero a cinque alberi. Quando lei mi mostrò quel quadro mi disse: «Ci ricorda che non possiamo stare mai fermi». Poi mi raccontò una storia che vorrei condividesse con tutti.

McKinsey, che è la più grande azienda di consulenza del mondo, fa una conferenza che ha come oggetto il momento di rottura, il momento di cambiamento per un imprenditore. E loro fanno questo esempio, nel quale sono protagonisti i maestri d’ascia dell’Inghilterra, ma anche dell’East Coast, quelli che facevano i velieri.
Questi sanno fare i due alberi, sanno fare i clipper, cioè i tre alberi americani che erano le navi da trasporto dell’Ottocento. Arriva il vapore. E il vapore comincia a portargli via il business. Che cosa fanno allora? Da tre alberi passano a quattro alberi. I quattro alberi, però, non servono perché quando non c’è il vento il veliero non va. Allora mettono cinque alberi, perché non sono capaci di convertirsi a un altro tipo di lavoro. Continuano a fare velieri e sono destinati, fatalmente, ad andare male. Ecco: con il veliero a cinque alberi non vai da nessuna parte.

E quand’è che il momento in cui il modello Esselunga, rispetto a quello che sta facendo oggi, non sarà più valido?

Un certo giorno, fatalmente, arriverà: sarà fra dieci anni, forse venti, non lo so. Quello è il momento in cui bisogna smettere di fare velieri. McKinsey ti dice: attenzione, imprenditore, guarda che tu il veliero non lo puoi più fare perché nessuno viaggia più sui velieri. A Milano abbiamo avuto l’esperienza dei cinque operai che hanno passato l’inverno sulle torri della stazione centrale, con Susanna Camusso che è andata lì sotto perché loro volevano continuare a fare i vagoni letto. Ma il vagone letto nessuno lo prende più! Il sindacato dovrebbe aiutare gli operai della società dei vagoni letto a cambiare mestiere. Meglio ancora: lo Stato dovrebbe farlo.
Dunque, qual è il momento in cui l’imprenditore deve «abbandonare» il prodotto? Questo è un interrogativo tremendo. McKinsey la risposta non te la dà. Ti dice solo: attenzione, guarda che è arrivato il vapore e se tu continui a fare il veliero sei finito. Poi però uno accende la tv e sente dalla Sardegna la storia più indecente...

Che cosa l’ha turbata della Sardegna?

In Sardegna l’anno scorso è stata fatta una cosa che per me rappresenta una nefandezza top. In Sardegna, nel Sulcis, c’è il «carbone di Mussolini» e ci sono oltre 400 minatori laggiù che scavano e che vogliono continuare a scavare il loro carbone perché sanno fare solo quello.
Ora, che cosa è successo lo scorso anno? L’allora premier Enrico Letta ci appioppa il costo di questi 440 minatori fino al 2034-2035: il costo ci viene trasferito sulla bolletta elettrica. Cioè: noi abbiamo l’energia elettrica più cara al mondo e sulla bolletta ci mettiamo pure il costo dei 440 minatori per i prossimi vent’anni?
Dunque lo Stato mantiene 440 persone a scavare carbone che probabilmente poi buttiamo. E carichiamo il costo sulla bolletta elettrica e nessuno dice niente. Ma scusate: perché nel Sud della Sardegna, dove ci sono terreni, acqua eccetera, non facciamo anche noi dei limoni senza semi come in Spagna o coltivazioni di albicocche come ce ne sono in Tunisia? Perché nel Sud della Sardegna dobbiamo continuare a scavare «il carbone di Mussolini»? La stessa cosa accadde quando il primo operaio salì in cima alla ciminiera della Borsalino, mi pare, nel 1950 perché alla Borsalino c’erano 7 mila persone che facevano cappelli di feltro e dopo la guerra il cappello di feltro non si portava più. Non è che i sindacati dicono: ragazzi, qui adesso per uno o due anni voi siete mantenuti poi vi aiutiamo a fare un altro mestiere. Inutile che insistiamo a creare qualcosa che non serve. Quello di salire sulle ciminiere è lo sport nazionale: si sale sulla ciminiera e si difende il posto di lavoro. Ma il posto di lavoro per qualcosa che non c’è più. Tu non puoi continuare a costruire il veliero, caro mio, cara signora Camusso.
Tu la gente la difendi in un modo diverso: trovando opportunità e lasciando le aziende libere di intraprendere. Questo Paese ha bisogno di una cosa sola: di un po’ di libertà.

A occhio e croce di libertà non ce n’è tanta. Adesso la faccio incavolare di nuovo: lei rivendica che la sua azienda è al 100 per cento italiana…

Purtroppo…

E aggiunge: «Nel Paese non siamo ben accolti». Eppure siete qui. Allora la domanda è: quanto è difficile restare e quanto è stato difficile resistere alla tentazione di vendere?

Beh, non esageriamo: non è giusto dire che «sempre» non siamo stati accolti bene, perché ci sono città dove siamo stati accolti benissimo. Certo, ce ne sono altre dove, un po’ per ragioni politiche un po’ per interessi precostituiti, che possono essere commerciali o di altra natura, siamo stati ostacolati. Genova, per esempio, è una città assolutamente chiusa. A Genova non si entra. A Mantova abbiamo problemi.

La fermo. A Firenze era dal 1970 che Esselunga aveva le carte in regola per aprire: quando ce l’avete fatta?

Veramente non abbiamo ancora aperto: apriremo probabilmente il 5 novembre.

Lo vede? Dopo 44 anni!

Firenze è un caso abbastanza estremo. Però a Cusano Milanino, vicino a Milano, 27-28 anni fa abbiamo comprato il terreno della Pirelli. Nel piano regolatore in quel punto era prevista la costruzione di un supermercato e non ce l’hanno mai fatto fare.

Insisto: com’è che avete resistito?

È stato difficile, anzi molto difficile. Noi siamo un’azienda relativamente piccola, nonostante i nostri oltre 20 mila dipendenti. Sapete quanti sono i dipendenti di Walmart? Due milioni e 400 mila.

Comunque i suoi 7 miliardi di fatturato sono importanti per l’Italia.

Nel nostro settore è una cosa piccolissima. Ma in Italia devi mantenere per forza una dimensione relativa: pensiamo al fatto che non esiste più neanche una catena alberghiera italiana. In Italia il grande non va aiutato, il piccolino sì, chissà perché.

Bernardo Caprotti è morto. L'ultima intervista a Panorama |video

Vorrei, però, tornare sull’argomento dei tempi di realizzazione dei suoi negozi. Perché in media, da quando decide a quando realizza, lei impiega 14 anni.

Sì, forse un po’ meno. Venendo qua sono passato davanti a una struttura che abbiamo cominciato otto-nove anni fa.

E chi può venire a investire in un Paese che ha queste tempistiche?

Nessuno. Infatti qui nessuno fa più niente. Queste tempistiche non sono normali: sono molto «italiane».

Da quando lei decide di costruire un superstore, quanto tempo avrebbe bisogno per realizzarlo se tutti i tempi fossero «normali»?

Dai tre ai cinque anni sarebbe ragionevole. Oggi ci mettiamo da 10 a 12 anni per fare una cosa che poi dovrà durarne altri 30 o 40 per potere essere ammortizzata: il veliero te lo sogni tutte le notti!

Da anni lei ha una lunga tenzone, non ancora conclusa, con le Coop culminata con il libro Falce e carrello: a che punto siamo?

Lì ci sono state otto cause, le abbiamo vinte; abbiamo vinto anche in appello. Insomma, le cose erano così e non c’era niente da fare.

Lei raccontava fatti non proprio leggeri.

Sono dei fatti, appunto. Se le raccontassi che cosa ci succede ancora oggi... Sono cose inenarrabili. Sono molto potenti: hanno il diritto di veto.

Continuano ad averlo?

Non dappertutto. Ma a Livorno, per esempio, noi abbiamo comprato un terreno dalla Fiat nel 1996. Una posizione bellissima. E sono passati 18 anni. Non c’è niente da fare: Livorno è un’altra città dove non si entra.

Dottor Caprotti, per lei che cos’è il talento?

È quello che gli americani chiamano imagination. Bisogna sapere immaginare, bisogna anche saper evolvere, sapere guardare un pochino più in là.

Secondo lei che cosa di Bernardo Caprotti è cambiato da quando ha iniziato a fare questo lavoro?

Ho imparato ad avere pazienza.

Nel 2013 lei invia una lettera ai suoi collaboratori in cui, sostanzialmente, annuncia il ritiro. In realtà, questa lettera non ha avuto seguito...

Sì invece. Io non firmo più niente: c’è un presidente e un amministratore delegato che ha tutti i poteri. Ma questo non vuol dire che io non sia lì e che non continui a dire la mia e anche qualcosa di più. Perché tutto sommato sono un veliero che ancora può navigare.

Quanto lavora, dottor Caprotti?
Beh, magari arrivo in ufficio anche alle 9,30...

E ci rimane fino alle 6 del pomeriggio?
No, beh: non vado via prima delle 20,30.

Dunque le sue dieci ore continua a farsele.
Sì.

E meno male che si doveva ritirare.
Sì, beh, ma è diverso. Insomma, un po’ per volta.

Forse la sua fortuna, a parte il genio e le intuizioni, è legata a una sua continua, maniacale attenzione al prodotto. Lei ancora oggi si occupa di tutto: dalle rose all’esterno dei superstore fino allo spessore dei pasticcini, troppo alti per l’eccessiva lievitazione…

Certo. La perfezione a questo mondo non esiste. Ma tutto è perfettibile. Ogni cosa che tu fai può essere migliorabile. Allora sforzati di fare meglio. Faccio un esempio. Io vado alla Scala, dove certo è molto bello il concerto. Ma invece bisogna assistere alla prova d’orchestra con Riccardo Muti. Una cosa pazzesca. Una «battuta» non riesce? La si rifà anche sette volte, magari perché il Maestro percepisce un qualcosa, a noi profani ignoto, che non va bene. Un lavoro pazzesco. E infatti Muti ha lasciato l’Opera di Roma.

Beh, questa è una vicenda che ci fa molto male, soprattutto agli occhi del mondo.

Ho sentito l’altra sera un sindacalista Cgil che diceva: «All’Opera di Roma i nostri lavoratori non sono mica dei metalmeccanici, non sono persone qualsiasi». Cretino: un metalmeccanico può essere più di un violinista.

Lei ha un pallino: gli aeroporti e il sistema aeroportuale. In particolare ce l’ha con Malpensa. Perché?

Il fatto è che Malpensa non può essere quello che la gente vuole: semplicemente perché non lo è e non lo sarà mai. Ho messo insieme un dossier. Allora, la prima pagina di questo dossier dice che la Valle Padana è una delle quattro aree principali industriali d’Europa insieme al Sud-Est dell’Inghilterra, all’Île de France e al Baden Württemberg. Peccato che i collegamenti col mondo non li ha. Le imprese non sono connesse né con l’Europa, né tanto meno col resto del mondo. Malpensa non è mai stato e non potrà mai essere un aeroporto intercontinentale perché è messo lassù nella Valle Padana: va bene per Gallarate, per Varese, ma non è l’aeroporto di Milano.
Milano, la capitale della finanza, della moda, del design, della lirica, delle fiere, è scollegata.

La soluzione?

A Montichiari ci sono 44 chilometri quadrati a destinazione aeroportuale. Un’area enorme, messa nel cuore della regione e della valle. Per Milano, obiettivamente, è un po’ lontana. Però è servita. L’autostrada Bre.Be.Mi. oggi l’ho fatta: pazzesca, una meraviglia. Uno da Cagliari arriva a Orio al Serio, prende un autobus e raggiunge Montichiari e prende il suo aereo per Johannesburg, per Rio de Janeiro, o Los Angeles, o Chicago. Chicago è uno dei quattro principali centri degli Stati Uniti. 

Va bene. Ma se per fare un negozio ci vogliono dieci anni, per un aeroporto ci vorrà un secolo.

Ma no, qui c’è già quello di Ghedi. Uno pianifica e dice: un momento, bisogna mettere a posto l’aviazione, sistemare quell’altra cosa. Poi si butta giù tutto e si fa, come fa Esselunga, una cosa nuova. Certo, bisogna entrare nell’ottica che i soldi vanno spesi.

Se la sente Renzi, mi sa tanto che la assume.

Con Renzi abbiamo un ottimo rapporto e, quand’era sindaco di Firenze, l’ho visto tante volte a Palazzo Vecchio. È una persona a posto, perbene. Adesso cosa possa fare non lo so: è in un grosso pasticcio. 

L’ultima domanda: cos’è per lei il domani?

Il mio domani? Senta una cosa: io ho iniziato il percorso del mio novantesimo anno. Cosa vuole che pensi al domani io? Penso a ieri…

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Giorgio Mulè