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​Diventeranno verdi le tute blu?​

​Diventeranno verdi le tute blu?​

Gli Stati Uniti la esaltano, ma la strada verso la “net zero” ridurrà la dipendenza delle aziende green dalla manodopera creando meno posti di lavoro rispetto ai settori tradizionali

Secondo Joe Biden la strada verso “net zero” è lastricata di opportunità di lavoro e le politiche green sono una strategia “win win” tra i lavoratori ed il pianeta. Forse non ne sono altrettanto sicuri i 300 lavoratori della Magneti Marelli di Crevalcore, in provincia di Bologna, che si stanno chiedendo quale sia l’aspetto vincente, per loro, del passaggio alla cosiddetta “mobilità sostenibile”.

Quello che in realtà emerge da una semplice analisi dei settori in prima linea nella transizione, dall’energia alle automobili all’acciaio, è che i nuovi processi produttivi green necessitano generalmente di una percentuale significativamente minore di manodopera. Che poi questo si traduca in aspetti positivi per i consumatori con prezzi più bassi questo è ancora tutto da dimostrare.

La strada verso lo “zero netto” significherà la perdita di posti di lavoro nei settori ad alta intensità carbonica come dimostra il recente accordo tra il governo britannico e Tata Group per decarbonizzare la più grande acciaieria del paese a Port Talbot che comporterà circa 3000 esuberi per la sostituzione dell’altiforno con un forno ad arco elettrico, a minore intensità di manodopera. Il costo a carico del contribuente? Al momento 500 milioni di sterline.

Ma molte attività non avranno bisogno di tanti lavoratori come prima ed una delle tendenze più preoccupanti è l’idea che l’energia verde debba essere vista come una fonte di buoni posti di lavoro. Fingere di non vedere comporta solo aspetti negativi per la nostra politica e per la nostra economia. La realtà delle tecnologie green è basata su un semplice assioma, macchine per costruire macchine: è l’automazione il vero “motore” occupazionale.

Secondo il Global Times , organo d’informazione del Partito Comunista Cinese, i successi produttivi della gigafactory di Shanghai di Tesla dimostrano come l’azienda di Elon Musk stia ottenendo benefici diretti dalla catena di approvvigionamento avanzata e completa della Cina. Grazie al tasso di automazione della fabbrica, oltre il 95%, il lavoro che normalmente richiede migliaia di persone ora richiede solo dozzine di persone.

Una ricerca dell’European Association of Automotive Suppliers (CLEPA) spiega come il 70% del valore aggiunto nel settore delle auto elettriche dipenda dalla produzione di batterie: un settore ad elevata automazione. Ma soprattutto che del mezzo milione di posti di lavoro nel settore della propulsione ICE che diventeranno obsoleti da oggi al 2040, la propulsione EV creerà meno della metà di nuove opportunità, con una perdita netta di 275.000 posti di lavoro fino al 2040.

Ma se si analizza l’intensità occupazionale lungo la supply chain risulta evidente che se nel downstream l’automazione riduce la dipendenza della manodopera, a monte accade l’inverso. L’intensità di materie prime critiche di queste tecnologie rispetto a quelle tradizionali è decine di volte superiore, di conseguenza la manodopera per un veicolo elettrico è certamente di molte volte superiore a quella di un veicolo convenzionale. Com’è facile intuire non è semplice definirne i numeri considerando che larga parte di questi processi non si verificano in Europa…

Una gigafactory riesce a fare profitti solo grazie alle economie di scala (Gigafactory non significa per forza anche «giga-profitti» – Panorama) ed all’efficienza delle sue linee di produzione dove si muovono solo i robot perché le gigafactory sono l’opposto delle fabbriche ad alta intensità di manodopera immaginate in Cina. Analogamente i parchi eolici o fotovoltaici, una volta in funzione, non richiedono tanto lavoro quanto lo scavo del carbone o l’estrazione degli idrocarburi.

Da qui l’assunto che meno energia ad alta intensità lavorativa dovrebbe significare, in fin dei conti, bollette più economiche. Niente di più falso. La Germania, motore europeo del Green Deal, oltre ad essere uno dei maggiori emettitori europei (La matematica del carbone – Panorama), ha bollette tra le più alte al mondo. Ed è proprio il carbone a sostenere la rete elettrica tedesca quando le rinnovabili smettono di produrre energia. E si può cogliere la sottile ironia di come siano proprio i lavoratori più a rischio, i minatori delle miniere di lignite tedesche, a garantire ai cittadini di quel paese di non rimanere al buio d’inverno.

Ma quello che concretamente interessa i lavoratori, le cui caratteristiche ambientali del proprio posto di lavoro non sono previste nella transizione “verde”, sono le reali possibilità di trovare una nuova occupazione. Naturalmente esistono dei profili occupazionali che più facilmente di altri possono ricollocarsi ma secondo un’analisi dell’FMI, in generale, il cambiamento occupazione non è facile e questo vale soprattutto per i lavoratori meno qualificati. Ma, soprattutto, è difficile per ogni lavoratore passare ad un’occupazione “più verde”, e questo aspetto dovrebbe temperare ogni illazione che la transizione sia facile.

In generale le industrie definite “ad alta intensità carbonica” includono l’estrazione o la produzione di carbone, petrolio e gas, oltre ai settori manifatturieri ad alta intensità energetica come cemento, estrazione mineraria, chimica, carta e cellulosa. Ma in realtà questo elenco è molto più composito come il caso di Crevalcore ci sta insegnando. Le aziende che producono componenti per motori a combustione interna sono attese da sfide difficili: attualmente non esiste alcuna garanzia di lavoro per i 10.000 dipendenti della sede centrale di ZF Friedrichshafen in Germania.

Vengono ritenuti lavori verdi, quei ruoli associati alle energie rinnovabili come il solare, l’eolico o la produzione di veicoli elettrici. Ma se un lavoratore del settore green ha un’alta probabilità, circa il 50%, di trovare un altro lavoro di natura simile durante la sua transizione lavorativa, la situazione si capovolge per i lavoratori da occupazioni ad alta intensità carbonica cerchino di passare a lavori definiti più ecologici: per costoro le probabilità di passare ad un’occupazione green sono irrisorie: tra il 4 e il 7%.

Ma anche per un lavoratore che provenga da un settore definito ambientalmente neutro, le probabilità di trovare una nuova occupazione green sono solo leggermente più alte: dal 9 all’11%. Tra queste categorie esistono inoltre profili che più di altri incontreranno difficoltà: sono i lavoratori più anziani, oltre i 45 anni, e quelli che non hanno un’istruzione universitaria, che sembrano meno propensi a passare a lavori verdi, e che, con maggiori probabilità, cercheranno di restare nel medesimo settore occupazionale o ad uscire dal mondo del lavoro.

Una ricerca svolta dallo statunitense National Bureau of Economic Research analizzando i dati di circa 300 milioni di cambi occupazionali negli USA tra il 2005 ed il 2021 ha cercato di comprendere con quali probabilità avvengano, tra i lavoratori, i cambi di settore: da quelli dei combustibili fossili o comunque ad alta intensità di carbonio verso i settori “low carbon”.

I dati hanno dimostrato che la stragrande maggioranza dei lavoratori che svolgono lavori ad alta intensità di carbonio non ha storicamente trovato occupazione nel settore green: nel 2021, circa l’1% dei lavoratori è riuscito a ricollocarsi in uno “low carbon”. Mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori che ottengono un lavoro green non proviene da industrie ad alta intensità di carbonio, ma da molteplici altri settori o occupazioni. In larga parte si tratta di “colletti bianchi” occupati come responsabili delle vendite, sviluppatori di software, tecnici dell’automazione o responsabili marketing.

Tra i settori di destinazione per quei pochi lavoratori che sono riusciti ad entrare nel settore green la parte più rilevante si è occupata nell’industria dei veicoli elettrici mentre energie rinnovabili, eolica e solare hanno avuto circa le stesse percentuali. Inoltre il tempo che intercorre tra l’uscita e l’ingresso nel nuovo lavoro è elevato: i pochi lavoratori che hanno lasciato un lavoro ad alta intensità carbonica nel 2020 hanno impiegato fino a tre anni per ricollocarsi nel nuovo lavoro green.

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