Da mihi hanc aquam

Da mihi hanc aquam

C’è più di un motivo per cui questa foto è la più bella foto di sport che sia mai stata scattata. Uno, e non l’ultimo, è senz’altro il fatto che essa (e tutta la vicenda che iconicamente racchiude) ha a …Leggi tutto


C’è più di un motivo per cui questa foto è la più bella foto di sport che sia mai stata scattata. Uno, e non l’ultimo, è senz’altro il fatto che essa (e tutta la vicenda che iconicamente racchiude) ha a che fare con uno dei temi cruciali dell’esistenza umana, un tema squisitamente religioso. E come dicevo, non è raro che sport e religione siano ambiti contigui. Tentai di spiegare quel motivo agli amici di allora un quarto di secolo fa, quando ancora non esistevano internet, i blog, i social network, tramite un pensiero che misi per iscritto e che ho ritrovato qualche giorno fa, facendo ordine tra alcune vecchie carte. Rileggendolo, mi pare si tratti di un’analisi ancora interessante, e siamo pure nei giorni in cui si sta concludendo il Tour de France. Pertanto, pur con qualche correzione a tappare le falle della mia maldestra prosa di ventenne, lo ripropongo.

Le ragioni di una scelta di campo a proposito del conflitto sportivo che divise l’Italia più di ogni altro possono essere ed essere state le più varie. Io credo, però, che l’origine di quella che a buon diritto può considerarsi, sportivamente parlando, l’archetipo di ogni rivalità e la madre di tutti i dualismi, sia nientemeno che una ragione in cui ne va della nostra vita, ovvero una ragione esistenziale e teologica. Provo a dimostrare.

Gino Bartali è umano, troppo umano. È stato atleta, colui che suda e che lotta. Non ricordo foto di Bartali in bicicletta che non mostri un’espressione corrucciata nel gesto poderoso, nello sforzo un po’ titanico, per quanto ben ripagato. Il suo terreno non solo favorito, ma direi anche naturale, il suo habitat, che da reale e sportivo è divenuto mitologico, è la salita, la montagna, in quanto ha esaltato nel bene e nel male la sua tignosità e le sue secrezioni dinamiche.

Bartali è stato il vincitore di due Tour de France, corsa per uomini veri, mentre significativamente non ha mai vinto il mondiale, la maglia iridata, preda di bastardi opportunisti, anche se magari grandissimi bastardi e/o grandissimi opportunisti.

Bartali è stato, insomma, una sorta di Sisifo su due ruote, che si arrampicava su strade roventi di ghiaia e schiantava tutti, per primo se stesso.

Bartali – dopo essere stato a suo modo eroico partigiano antifascista – salvò la Patria, da cittadino probo qual era, quando nel luglio del 1948 distolse, facendole convergere su di sé trionfatore sull’Izoard, le voglie rivoluzionarie di mezza Italia, incazzata nera perché avevano sparato a Togliatti. Il legittimo sospetto di un Bartali strumento del regime democristiano lo rende di nuovo più umano, totalmente umano, ferocemente umano, in quanto solo l’uomo può accondiscendere a tale compromesso insieme avvilente e nobilitante. La vittoria al Tour fu raggiunta – questo non permetto che venga messo in discussione – solo ed esclusivamente grazie ai garretti, che però obbedivano, per così dire, a un’appartenenza più grande, più universale: quel giorno Bartali andò più forte perché sapeva che c’era in gioco non solo la sua gloria di mulinatore di pedivelle, ma la sorte della Nazione. Politica perfecit natura.

Bartali ha fatto in tempo a invecchiare e ha sperimentato la bellezza e l’infamia calma, canuta e diluita della vecchiaia: continuò per decenni a essere l’eroe che fu in attesa della morte, attraversando di tutto: dalla gloria della canzone di Paolo Conte all’esperienza un po’ avvilente della conduzione, per qualche settimana all’inizio del 1992, di “Striscia la notizia”. Quando infine morì, nel 2000, il 5 maggio come Napoleone, nulla si aggiunse al suo eroismo, giacché la morte fu il suo naturale destino, ciò che vale per ogni uomo. A volere essere cinici, si può ipotizzare che tra una cinquantina d’anni la sua scomparsa comincerà a lavorare contro di lui – come è inevitabile e inesorabile – e farà sbiadire i contorni di ciò che egli è stato. Forse, siccome è eroe, il tempo non potrà farne mai scomparire il centro, ma si tratta di nient’altro che una umana, troppo umana speranza.

Infine Bartali, fu religioso. Più precisamente, fu cristiano e cattolico, iscritto all’Azione Cattolica di cui per tutta una vita ha portato il distintivo. Ed è evidente che sono un uomo mortale che sa di avere bisogno di essere salvato può essere cristiano.

Fausto Coppi, al contrario, non fu un uomo. Non essendo un uomo non può essere nemmeno atleta, né eroe, né buon cittadino, né cristiano. Semplicemente, le cose stanno così: un dio, un demone, un folletto pagano non ha bisogno né interesse a essere tutto ciò, ma si basta, gaudente o tormentato nella propria divinità.

Il Coppi del mito non suda, ma sale; non fatica, ma avanza; non attacca, ma vola.

Essendo un dio, Coppi ha conosciuto la morte da sempre e dal principio, senza bisogno di attenderla, ed ecco spiegata quella sua espressione perenne e immutabile, triste alle viste umane, ma più che triste se ben considerata: in realtà, ignara e indifferente, di un’indifferenza divina. Il volto di Coppi morto è il medesimo di Coppi vivo, non perché avesse da morto un’espressione bella e nemmeno perché da vivo avesse una faccia da morto. Piuttosto, conosceva già in vita uno stato intermedio di catatonica impassibilità che, sovranaturalmente, ha conservato oltre il trapasso.

Coppi, insomma, è la grazia divina incarnata in un ciclista. Coppi è la dimostrazione ciclistica dell’esistenza di Dio. Come tale, Coppi è qualcosa di un po’ cerebrale e di supremamente indifferente. Non è tanto l’accadere della grazia, quanto l’intuizione della sua possibilità, in quanto realizzata in sé, ma divinamente inaccessibile e racchiusa ineffabilmente nell’eletto. Perché la grazia diventi evento è necessaria la presenza di un uomo al suo cospetto, e Coppi, come detto, umano non è.

Ovviamente Coppi, in quanto non umano, non ha bisogno della mediazione ecclesiastica e, al limite, non ha bisogno nemmeno della mediazione cristiana o religiosa, perché è mediatore a se stesso dei divini favori. Anzi, la stessa conduzione eretica della sua vita, fatta di abbandoni del tetto coniugale e di dame bianche, di doping e di opinioni sinistrorse nell’Italia del perbenismo, è testimonianza della sua divina superiorità.

Ciò detto, il misterioso arcano della borraccia raffigurata nella foto dalla quale siamo partiti che ancora oggi fa discutere chi non è ferrato in cose teologiche (È Coppi che la sta passando a Bartali o viceversa?) risulta chiarito: è forse possibile che un uomo, per quanto forte e meritevole, financo il più grande tra i figli di donna, possa donare qualcosa ad un dio? È forse possibile che un dio abbia realmente bisogno di qualcosa, se non – forse – della riconoscenza amorosa di un uomo? E’ evidente che Fausto, incarnazione della divina grazia, fa dono dell’acqua (cioè della grazia) a Gino, l’uomo forse buono e meritevole.

È risaputo che Bartali ha sempre sostenuto il contrario, ma pure questo particolare conferma la tesi: l’uomo è per natura fanfarone e vuole aver merito di ciò che gli capita per grazia. Coppi, dal suo canto, ha sempre divinamente detto la spiacevole verità, la spesso tagliente parola divina, che non ammette mezze misure né compromessi.

In conclusione, il motivo per cui questa foto è la più bella foto di sport che sia mai stata scattata è che, su quel tratto di salita, si è realizzata la condizione dell’accadere della salvezza, in quanto un uomo e la grazia divina si sono trovati, certo per misterioso e affascinante disegno, fianco a fianco.

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Marco Beccaria

Marco Beccaria è nato a Milano nel 1967. Sa fare passabilmente tre cose:  insegnare filosofia e storia al liceo, discutere oziosamente di massimi  sistemi e il master di Dungeons & Dragons. Meno bene riesce a  giocare a pallacanestro e ad andare in bicicletta, il che non gli  impedisce di trarre godimento da entrambe le attività. È sposato con  Raffaella e vive tra i colli piacentini e Milano.

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