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Latti solidi, latti crudi, eccetera

Chi ha difficoltà a prendere sonno lo sa: bisogna continuamente costruirsi i propri paradisi. Si tratta di investire la propria immaginazione in un buio più personale rispetto a quello a cui siamo costretti dall’assenza di luce, in un meta-buio, va’. …Leggi tutto

Chi ha difficoltà a prendere sonno lo sa: bisogna continuamente costruirsi i propri paradisi. Si tratta di investire la propria immaginazione in un buio più personale rispetto a quello a cui siamo costretti dall’assenza di luce, in un meta-buio, va’. Il mio è fatto, con poche variazioni sul tema, di facce di Robert De Niro e di parole che mi piacciono. De Niro reagisce con una delle sue espressioni (una delle sue quattro, se consideriamo la sua filmografia più recente) a queste parole:

«Ciao, Robert. Vorrei un po’ di latte. Crudo. Sai dove lo vendono?»

«Dici a me? Uhm…»

«Il latte? Crudo?»

«Uhm, sì…» (a volte dice «yes», per coerenza cinema-vita).

«Ok, andiamo?»

«Per me non fa differenza»

«Ok»

Di solito il sonno arriva quando sto addentando quel latte, con De Niro che sorride con la sua denirità.

Dico addentando non a caso. Il Carnation è in commercio da un centinaio di anni (la storia la leggete qua), e ha avuto, come tutto, un boom negli anni ’50 ’60 – eviterò di percorrere la spirale tra “crescita” e “carnazione” – ma il punto non è questo: il punto è che questo prodotto – questo oggetto – possiede per me, come un totem, una densità di piacevolezze quasi insostenibile. La parola che preferisco è latte. Mi piace come suono, cioè come puro significante, e come significato: cioè mi piace l’oggetto latte. Che esista del latte, poi, evaporato, polverizzato, o condensato, fa sì che già siamo in una dimensione di incomunicabilità del piacere che mi procura. Se qualcosa è condensato, è addentabile, masticabile, esperibile. Certo – come spesso capiterà in questo blog, e non sempre nel senso puramente scientifico – qui siamo sulle soglie della psicoanalisi, ma vorrei restare in una dimensione letteraria.

In un romanzo che si chiama La gomma, il protagonista desidera trovare «una gomma leggera, friabile, che lo sfregamento non deformi ma riduca in polvere; una gomma che si possa sezionare con facilità e la cui sezione sia brillante e liscia come madreperla». Questa ricerca assume nel romanzo i tratti dell’ossessione, come tutte le ricerche che si rispettino, aggiungo. Aragon, il surrealista, in un saggio che si chiama Paysan de Paris parla di un uomo che amava le spugne: «… ne aveva di così soffici, che non poteva lottare contro il desiderio di morderle. Le più belle, tavolta, nella sua smania, le dilaniava, e piangeva davvero sui loro splendori sparsi. Certune le lambiva, altre le infilzava semplicemente».

Sì, la parola che unisce queste ossessioni, compresa la mia, è feticismo. Parlo, senza psicoanalizzarlo, dell’erotismo che si scatena dall’avere a che fare, materialmente o idealmente, con degli oggetti.

La mia attrazione per il latte condensato, in più messo dentro una scatola (!) di latta (!!) dipende dal fatto che sia la parola che il suo referente fisico incorporano l’organico e l’inorganico, l’originario (è pur sempre un liquido estratto dalle mammelle di un mammifero, per quanto “felice”!) e la logica seriale dell’industria. Come tutte le cose in scatola, può essere trasportato e conservato. Forse è per questo (o forse, viceversa, quanto detto sopra è spiegato dal motivo che si trova appena fuori da questa parentesi) che Bataille ne La storia dell’occhio fa sedere Simona, nuda, su un piattino di latte.

È questo, ad ogni buon conto e per inciso, il motivo per cui non posso abbandonare la lettura su carta. Nessun misoneismo, nessuna amicizia per le posizioni apocalittiche o non integrate. Non me ne frega niente. Lo schermo è sexy, mi piace sfiorarlo, mi piace l’idea di un pannello sensibile – ho visto un sacco di Cronenberg. Mi piace la lattescenza dei font. La carta, però, è un feticcio perfetto: se penso alla colla, alla macerazione, al legno tenero triturato e impastato, ridotto in poltiglia, reso sottile, pastoso, mi viene l’acquolina in bocca, come per un latte solido. Mi piace sottolineare e fare le orecchie, mi piace quando le pagine si piegano, mi piace quando i libri si gonfiano. (NB: Non potete aiutarmi, c’hanno già provato). Questo è il motivo per cui qua sopra i libri di carta saranno più presenti.

La faccenda dell’odore della carta è diventata talmente una barzelletta da perdere ogni connotato seriamente feticistico – appartiene alla stessa specie di processi di cui fa parte la riduzione della psicoanalisi a psicosomatica da giornaletto – perciò mi toccherà non farvi mai riferimento. Ma: sì: io sono una che annusa. Il punto è che fosse per me io annuserei pure i bit – e talvolta c’ho pure provato – perché il mio approccio alle cose è del tutto feticistico: collezioni, scaffali, accumuli, pagine, orecchie, sottolineature, ex libris: di questo si parlerà. Farò interviste a persone che mi stanno simpatiche (nda: sarei contenta di ricevere delle proposte da bibliomani e autori con la stessa sindrome) sulle cose – gli oggetti – che amano e che danno loro piacere, e andrò a ficcare il naso nelle loro librerie.

Liberare le cose dalla loro utilità: ecco il fine ultimo del collezionista. Non conosco niente di utile che sia anche bello. Costruirsi il proprio Paradiso, cedere alla sua voluttà irresponsabile, dominare l’insonnia, fare del cinema delle proprie ossessioni, eccetera: ecco il contenuto di questa scatola, se volete annusarla o infilarci un dito. Questo latte non serve a nutrire, in nessun senso, né letterale né metaforico; basta dire che io non ne bevo. L’ho messo accanto a De Niro perché il mio Museo ideale è quello del Cinema di Torino, dove l’accumulo e la citazione diventano esperienza, fiction, sospensione della incredulità, limite tra il sonno e la veglia.

Ah: inutile fare le differenze tra quantità e qualità. Tra l’accumulo e la scelta, tra il supersconto e l’edizione limitata. Amazon va bene, le bancarelle vanno bene, va bene anche se qualcuno godesse ad accumulare pagine immateriali, bit, pixel, toccamenti di schermo. Ma sia chiaro che l’ottica è questa. Quello che cerco è la qualità della quantità. Qui parliamo di collezioni, di ossessioni, insomma di latti, miei e degli altri.

(In virtù di quanto detto sopra, dovrebbe ormai essere ovvio che il plurale della parola latte, per me, è più attraente che mai).

 

 

 

 

 

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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