Kraftwerk, i geni del suono artificiale
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Kraftwerk, i geni del suono artificiale

Quattro ingegneri che dagli anni 70 inventano un mondo disumanizzato, creato solo al computer. Ora la Tate Gallery li celebra. Perché sono in tanti a dover tutto ai Beatles dell’elettronica

Tre chilometri di cavi, connessi a 140 computer, in uno studio di registrazione sotterraneo vicino a Düsseldorf, in Germania. Un’autostrada di fili e monitor inaccessibili al mondo esterno lungo i quali corre la storia della band più influente del mondo dopo i Beatles, i Kraftwerk, gli ingegneri del suono di una società tenuta in ostaggio dalla tecnologia e dalle macchine. Da quarant’anni Ralf, Fritz, Henning e Stefan progettano i suoni dell’avvenire e spalancano le porte del futuro ai loro colleghi. Che siano rocker, rapper, cantautori o artisti della scena dance, tutti devono loro qualcosa.

"Canzoni che non nascono dalle interazioni con gli esseri umani, ma dalla freddezza immateriale dei fenomeni e delle cose: questo è quel che abbiamo creato per evadere dalla cappa anglofona che soffocava la cultura musicale tedesca post 1945. Il suono sordo di una centrale nucleare, il caos delle tangenziali urbane, la corsa di un treno, trasformati in note elaborate da un computer. E poi i manichini robot, programmati per esibirsi con le nostre sembianze" racconta Ralf Hutter, 66 anni trascorsi nel culto assoluto della privacy.

Un concept rivoluzionario, quello dei Kraftwerk, celebrato a partire dal 6 febbraio con una serie di concerti evento in 3D alla Tate Gallery di Londra. "Abbiamo mandato in tilt il sito della galleria" sibila compiaciuto Hutter, postura rigida e voce robotica, artefice dell’impostazione culturale, del suono e dell’iconografia del gruppo. Un suono alienato come le masse silenziose dell’ex Germania Est, un look tricolore (bianco, rosso e nero) come lo stendardo nazista, chiaro riferimento all’omologazione hitleriana.

All’inizio non li aveva compresi nessuno, i Kraftwerk. Nemmeno Lester Bang, il critico più illuminato di Rolling Stone magazine, che dopo aver assistito a una loro esibizione berlinese scrisse lapidario: "Questa è la soluzione finale della musica". Non era andato oltre l’apparenza il buon Lester, esattamente come Melody maker, la rivista di punta della scena musicale inglese nei primi anni Settanta. "Per carità, teniamo lontani dalla musica questi robot made in Germany" scrisse sulle sue colonne, mancando così clamorosamente l’appuntamento con il futuro.

"Lo stereotipo per cui la musica elettronica non sa parlare al cuore o del cuore era molto presente quando abbiamo iniziato. Ma si può scrivere e cantare d’amore andando al di là dei fazzoletti pieni di lacrime o dell’eccitazione sessuale incontenibile. La nostra Computer love trattava il tema in riferimento a persone evolute che hanno relazioni complesse, non ordinarie. L’uomo che cerca vicinanza fisica attraverso uno schermo mi pare un tema di una certa attualità. Noi lo abbiamo trattato nel 1981" chiosa Hutter.

La disumanizzazione: è questo il motore creativo dei Kraftwerk. Alle loro spalle, durante gli spettacoli, scorrono immagini di edifici vuoti, autostrade deserte, figure geometriche squadrate, esperimenti scientifici, laboratori algidi... Un mondo senza umanità, in piena sintonia con quello sviscerato nel romanzo di Michel HouellebecqLe particelle elementari , in cui la clonazione regala agli esseri viventi un’esistenza «perfetta» senza turbamenti ed emozioni. Non è dato sapere se sia questo l’approccio alla vita dei Kraftwerk. Il loro mondo privato è segreto come il Kling Klang, il bunker-studio di registrazione di Düsseldorf, mai visto da nessuno. E a qualcuno inizia a venire il dubbio che non sia mai esistito.

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Gianni Poglio