Il demone della perversità: perché voglio l’iPad mini secondo Edgar Allan Poe
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Il demone della perversità: perché voglio l’iPad mini secondo Edgar Allan Poe

«Sentirmi dire che non potevo comprare uno scheletro era esattamente quello che mi ci voleva per cominciare a desiderarlo». Avrei dovuto portarmi dietro Quando siete inghiottiti dalle fiamme di David Sedaris quando sono andata nel centro commerciale più medio d’Europa…Leggi tutto

«Sentirmi dire che non potevo comprare uno scheletro era esattamente quello che mi ci voleva per cominciare a desiderarlo».

Avrei dovuto portarmi dietro Quando siete inghiottiti dalle fiamme di David Sedaris quando sono andata nel centro commerciale più medio d’Europa ad assistere all’ostensione del nuovo iPad, e a verificare la forza della mia determinazione.

Prima di andare, mi sono armata della forza di volontà altrui, giacché sulla mia so di non poter troppo contare: ho chiesto alle persone che l’iPad non ce l’hanno per scelta, giacché ne esistono, di dissuadermi, o almeno di fornirmi elementi perché potessi ragionevolmente desistere.

«Smettila. Quella cosa – che manco vogliono nominare, quasi fosse un brutto male – non ti serve».

E questo loro lo chiamano dissuadere.

«Considera i succedanei: fanno le stesse cose e anche meglio».
Allora perché li chiami succedanei?

Le loro obiezioni, che so essere nobili, mi ricordano quelle dei cospirazionisti.

Ma guarda che sulla luna mica ci siamo andati.
Ma guarda che l’Ipad lo fanno i poveri.

C’era la fila, e come davanti alla mummia di Lenin o alla madonna nera messicana di cui non ricordo il nome potevi sostare solo per un certo tempo. Se volevo attingere a quella luminosa, viva reliquia del futuro, dovevo affrettarmi. Cosa vuoi che sia un’ora e quaranta di fila di fronte alla possibilità di vedere da vicino quella piccola, compatta, alternativa alla vita.

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Ciascun potenziale cliente poteva osservare, toccare, ascoltare la spiegazione della guida cioè del commesso; poi veniva indirizzato dentro un corridoio razionalmente organizzato a spirale da transenne mobili, il cui accesso era riservato a puliti ed efficienti manovratori in blu e argento, e al termine del quale poteva procedere all’acquisto; in caso contrario, veniva canalizzato verso il corridoio d’uscita, più caotico e disordinato, dove veniva abbandonato a sé stesso.

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Ci mancava solo un tapis roulant che mi scorresse sotto i piedi come nelle cattedrali del Sud America che contengono spoglie misteriosissime, e in effetti qualcosa mi si stava muovendo tra le gambe, indistinta e ronzante, ma era una folla di qualcosa che ora, a mente fredda, potrei identificare come “bambini”, che protetti dalla morale imperante che li vuole vedere come esseri innocui volevano vedere, toccare, annusare, se necessario anche uccidendomi.

nativi digitali, pensavo, sono stati l’unico tipo di nativi che l’Occidente ha ritenuto di non dover sterminare, non con le armi con cui ha sterminato gli altri, almeno. Sentivo addosso lo sguardo malvagio dei loro padri costretti ad aspettare il loro turno dietro la transenna.

Perché facciamo tutto questo? Perché ci sottoponiamo a questa tortura?

C’è un’altra cosa a cui concediamo la stessa supina deferenza incantata. Adesso non mi ricordo come si chiama, ma prevede, al pari di questa, dispendio emotivo e finanziario, esaltazione inconsapevole, ebbrezza immotivata, degradazione e perdita dell’amor proprio e della facoltà di intendere, a volte delirio, e nei casi più gravi può provocare il decesso. Ah, sì: la religione. Ma andiamo, mica siamo nel 122 d.C. mica si muore per la religione, mica si viene crocifissi, mica ci vengono bucate le mani e ci viene passato l’aceto sul costato aperto, mica veniamo appesi per i piedi e la data viene segnata sul calendario. No, infatti. Allora è l’amore.

Io non ho un iPad, per un insieme di concause, tra le quali non spicca tanto la ragionevolezza quanto l’indifferenza. Non è mai stata una questione morale, figuriamoci. Fatto è che fino ad oggi non solo mi sono ritenuta ma di fatto sono stata al riparo dal pensiero di non averne bisogno. Fino ad oggi, ero talmente serena rispetto all’ipotesi di possedere quell’oggetto che avrei potuto, indifferentemente, comprarlo o non comprarlo. Che cambiamento è intervenuto in me, allora, dal momento in cui ho cominciato a dovermi convincere che non dovevo comprarlo?

Ma è stato proprio questo il punto: il desiderio di possederlo è comparso quando qualcosa mi ha ragionevolmente suggerito che non avrei dovuto possederlo, come il demone della perversità di Edgar Allan Poe,

«sotto la cui influenza agiamo per alcun motivo comprensibile, sotto la cui influenza noi agiamo solo perché non dovremmo».

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L’addetto/steward/manager mi ha chiesto molto professionalmente se volevo toccarlo. Come Sedaris in un altro racconto su amore e tassidermia uscito sul New Yorker, quando il negoziante gli chiede se vuole toccare un arto mummificato da cui si sente colpevolmente attratto, ho esitato un istante, presa da estatico terror panico. Lo tocco, vendendo l’anima dei miei polpastrelli al diavolo dell’inutile device, o non lo tocco, portandomi a casa, insieme alla mia inutile dignità, il rimpianto, la viltà, l’inadeguatezza di entrare in contatto con quella piccola testimonianza del sacro contemporaneo?

Ho sentito la pupilla dilatarsi. Ho visto l’addetto, prima professionalmente, asetticamente entusiasta, sbiancare un istante, e il suo viso contrarsi in un tic che gli increspava il labbro superiore, con cui pure continuava a sorridere.

Ho ricambiato quel sorriso, assorbendone il codice di cortigiana falsità; mi sono tornate in mente le parole di uno dei miei amici più perbene:

Guarda che lo schermo è della Samsung.

«Teoricamente, nessuna ragione potrebbe essere più ragionevole, ma, in realtà, non ve n’è una più forte», mi sussurrava Poe in un orecchio.

Ho allungato una mano – la destra – mentre il corpo solitamente neutro del genius manager veniva percorso da un brivido quasi visibile. E l’ho toccato.

Bè. Che dire. Uno schermo, una superficie dura, tiepida e sensibile, simile a un velo d’acqua ghiacciata. Niente di più che uno schermo. Dietro, una schiena dritta, liscissima, appena satinata e percorsa da una nervosa tensione serica. Pfu. Materiale, merci, assemblaggio, catena, sfruttamento, plusvalore, superfluità, faceva Marx da sopra la spalla sinistra.

Tant’è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi, come Federico Ruysch davanti alle sue mummie.

«Stesse prestazioni dell’iPad», ha sussurrato il genius, ma voleva dire «Bello, eh?».  Siccome era ancora vivo, ha poi chiesto: «Tu hai un iPad, no?».

Non gli ho risposto, il che era esattamente quello che lui voleva facessi. Ho fatto una specie di rumore col naso che voleva denotare controllo e lucidità e invece è suonato come uno stravagante segnale di capitolazione. Mi sono staccata i bambini di dosso come Karen Blixen ne La mia Africa, e mi sono avviata verso il corridoio dei buoni.

«Non sono più sicuro di respirare – scrive Poe in quel magnifico racconto – di quanto sia sicuro che la consapevolezza del male o dell’errore di qualsiasi azione è spesso l’unica irresistibile forza che ci spinge a portarla a termine».

Pensavo: che male c’è, a volersi un po’ di bene, anche se ci si fa un po’ del male? Prova a pensare a quanto hai speso in Iperico negli ultimi anni, e a cosa ti è servito?

«Ma nell’ipotesi di quel non so che, che io chiamo perversità, non solo il desiderio di stare bene non è affatto suscitato, ma esiste anche un sentimento fortemente antagonistico» rintuzzava Poe srotolandosi macabro e buffo come il gatto di Alice.

Il genius manager si è avvicinato ad alcuni suoi colleghi increduli e ha cominciato a parlare male di me.

Sentite, avrei voluto urlare: io ho un Kobo, so in cosa consiste, cosa significa, quel contatto tra la noiosa pelle umana e la perfetta, reattiva pelle di sirena di un pannello di pixel. Mi addormento da settimane solo quando lui mi avverte che ho vinto il Premio Lettrice notturna. L’altro giorno mi ha avvisata che avevo letto un sacco durante la pausa pranzo, e mi ha gratificata con un Premio Dieta come nemmeno un Professor Cannella ha mai saputo fare dicendo che è inutile eliminare i carboidrati.

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So che le pagine di quella cosa immateriale, aerea, in cui si è trasformato “il libro” palpitano come alette di farfalle che hanno smesso di torturarmi stupidamente a segnalare l’innamoramento degli umani, per andare a popolare quel giardino di delizie cerebrali in cui crescono le querce di Dante e Ariosto tra i papaveri di De Quincey e gli splendidi, carnali e sonnolenti fiori del male.

Conosco il profumo delle piccole porte USB, il suono pieno che fanno le unghie (ntòc) quando afferriamo la tavoletta (conosco persino il piacere di pronunciare la parola tavoletta per questi dispositivi) distrattamente, di scatto, distogliendola dal suo elegante e pulito stand-by.

So tutto, caro genius. La sento perfettamente quella cosa di cui non parli ma che vuoi suggerirmi, celandola come le carni di una ninfa (gli occhi di bragia di un satiro, nel mio caso, ché sono femmina) dietro una selva di caratteristiche tecniche.

Lo avverto quel brivido, simile a quando apri una finestra che dà su un paesaggio di neve dentro una stanza tiepida, prodotto dall’attrito tra lontananza e disponibilità. So almeno quanto lo sai tu che io questa cosa la voglio perché non possonon volerla, e perché non devo volerla.

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E allora perché non lo compri?

Perché reagiamo alla magia con altro pensiero magico. Non desistiamo per la ragionevolezza di dover andare dall’oculista la settimana prossima, che da quando fattura ha aumentato il prezzo delle visite. Non è nemmeno per la considerazione che la vita è scema, piena di conti da fare, e colpe da gestire come meglio si può, peccati che sappiamo già che ci perdoneremo e altri troppo piccoli per suscitarci pietà di noi, ma volgarmente costosi.

Perché ci schieriamo con quella parte di umanità che prende il corridoio d’uscita, afflitta ma desiderosa di aspettare, messianicamente, che il prezzo scenda, anche se appena recuperiamo l’uso della ragione realizziamo che il prezzo scenderà solo quando quell’oggetto splendido avrà perso ogni attrattiva, scalzato da uno ancora più splendido, e la sua aura si sarà logorata nelle mani di tutti.

Perché il demone della perversità sa aspettare purché noi lo alimentiamo col nostro cuore. Se così non fosse, non ci sarebbe differenza tra desiderare e volere.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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