Ho preso un solo capello come reliquia
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Ho preso un solo capello come reliquia

Sono stata ingenerosa l’altro giorno con Milano. In realtà, penso che ci sia almeno un motivo per andarci e restarci anche una giornata intera. Nell’aula dei Manoscritti della Biblioteca Ambrosiana, accanto al Codice Atlantico di Leonardo, si trova un …Leggi tutto

Sono stata ingenerosa l’altro giorno con Milano. In realtà, penso che ci sia almeno un motivo per andarci e restarci anche una giornata intera.

Nell’aula dei Manoscritti della Biblioteca Ambrosiana, accanto al Codice Atlantico di Leonardo, si trova un oggetto interessante, per me almeno.

Sono i capelli di Lucrezia Borgia.

Lì accanto si trovano anche le lettere che Lucrezia spedì a Pietro Bembo, il quale le dedicò Gli Asolani (l’edizione originale è all’asta, se siete interessati. Occhio ché se cliccate vi si apre la pagina di stampa, così potete andare direttamente da Christie’s col coupon, dite pure che vi mando io).

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Lucrezia fu davvero donna dissoluta, anzi: di «rotti costumi», figlia, moglie e nuora di papa Alessandro VI, assassina, eccetera? La Storia si è interrogata per secoli a proposito, evitando al contempo di volgere lo sguardo alla trave nell’occhio del Papa.

Per inciso Bembo diventerà poi cardinale, a Roma, nel 1539. Comunque, «sono molti i Procopii, Tacito è un solo», come è scritto, in modo definitivo, nella prefazione ottocentesca alle lettere.

Fatto sta che davanti a queste lettere restò rapito Lord Byron, che le definì “the prettiest love letters in the world’, imparandone addirittura qualcuna a memoria perché non era permesso fare copie. Ma fece di più: approfittando di un’assenza del custode staccò un capello, uno solo, dalla treccia bionda e se lo mise in tasca.

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dalla Biografia di Byron scritta dalla sua amante Teresa Guiccioli

Pare che Byron tenesse il capello in un astuccio che portava sempre addosso. Per colpa sua, si diffuse una vera febbre feticistica per questi capelli: forse tutti volevano imitare lui, più che impossessarsi del cimelio, fatto sta che è uno dei primi casi di marketing della reliquia nella storia, tanto che la Biblioteca nel 1928 si vide costretta a commissionare la costruzione di una teca, in cui li vediamo adesso.

Ma come sono arrivati i capelli alla Biblioteca? Pare che provengano dalla biblioteca di Bembo, che li teneva tra le pagine di in un libro, dopo averli avuti in pegno, come usava, da lei.

Ora: sappiamo tutti, tanto attraverso il mito quanto la vulgata fetish, quanto i capelli, nella loro massa, cioè nella loro singolarità multipla, siano metonimie perfette del corpo (femminile), quanto concentrino il potere della seduzione, ecc.

A volte i capelli sono, come oggetti di culto, più interessanti del loro proprietario. Questi, per dire, sono i capelli di Jane Austen

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nella casa-museo di Chawton

 

Il punto più alto della mistura sublime tra mito e fetish è toccato da Baudelaire, che qui

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scrive

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Comunque, sono anni che dedico il mio tempo ai capelli nella letteratura. Mbè? Ho perso tempo a fare un sacco di altre cose, e comunque c’è gente più matta di me. Credo che qualcuno avrebbe dovuto pagarmi, piuttosto, per la mia attenzione.

L’apoteosi di questa ossessione è raggiunta da Maupassant nel racconto La chioma

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in cui un antiquario amante (nel senso forte del termine) del passato porta a casa un mobile con un cassetto segreto, che alla fine riesce a scassinare

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Michel Piccoli nel film di Ado Kyrou "Le chevelure"

e  indovinate cosa ci trova?

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sempre lui

sì:

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Il seguito è degno di un racconto di Poe:

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e anche lui, come Baudelaire, la morde

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così da vedere il giorno attraverso il biondo della sua chioma

Sì, vabbè, dice: sono capaci tutti, a eccitarsi per una matassa di capelli appartenuti chissà a chi. Vero (forse). È per questo che da un certo punto in poi, più che i capelli, sono tornata a interessarmi di quel singolo capello staccato da Byron. Quanta nostalgia contiene un solo capello? Quanta mancanza?

Dice: perché uno, se è la quantità lo spirito guida che ribolle nelle vene del collezionista? Non è la ciocca il feticcio perfetto? Non è la treccia, che può essere morsa, a destare i ricordi?

Sì, ma il singolo capello è più lirico, più patetico e più difficile. Le chiome gorgoniche sono fatte per pietrificare. Un solo capello tortura, ossessiona, è legato alla morte più di quanto la vita sia legata a un capello.

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Orazio era ossessionato dal crine di Licinia: nelle Odi Mecenate è disposto per esso a dare tutti i tesori d’Arabia,

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ma si sa che “crine” è, in questo caso, sineddoche per il tutto di “chioma”.

Ok. Inutile continuare a cercare nel mito. I capelli di Sansone, in cui era la forza, sono inequivocabilmente plurali; gli eroi non sono mai calvi, e se lo sono sono barbari o maestri di Dioniso zoppi e ubriaconi.

Ci vogliono mostri per avere la forza in un solo capello. A trovarlo, e reciderlo, ammazzi il mostro.

Incredibilmente, una cosa così esiste. È lOrlando furioso: Astolfo è alle prese con Orrilo, mostro che più lo trucidi, più lo spezzetti, più lo dilani, più quello si riattacca i pezzi di corpo. L’unico modo per abbatterlo è recidergli un capello. Ma non uno a caso: uno in particolare, quello giusto. Il capello pieno di Morte.

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Per le bellissime edizioni Forni, è uscita questa ristampa di un libro di Filippo Caccialanza del 1885, dalla carta calda e morbida com’è di solito la carta dei libri Forni (quando non sono addirittura da tagliare).

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La questione del libro è: perché Ariosto nell’Orlando Furioso parla del gigante Orrilo, che poteva essere ammazzato solo recidendo sulla sua testa l’unico “crine fatal”, e due secoli prima Petrarca, nel Trionfo della Morte, disegna Laura che muore quando la Morte, appunto, recide sulla sua bionda testa «un aureo crine»?

Beh, ma non è meraviglioso? Quanto deve essere sottile, puntiglioso, matto uno che decide di fare uno studio su una cosa del genere?

Ma seguiamo il discorso di Caccialanza: nel caso di Ariosto, il capello è legato alla morte violenta, e alla prodigiosa vitalità, in esso sono concetrati demoni, sangue, orrori: la moltitudine scalpita nell’uno.

Nel caso di Laura, che reclina il capo sul letto, quel capello è un accessorio, non contiene nulla della vita di Laura. Non è, dice Caccialanza, che se le donne non si tagliano i capelli non muoiono.

(Mentre sto scrivendo penso: ma non ci sono cose più importanti a cui pensare? E mi rispondo: no. D’altra parte, pure voi, se mi state leggendo non state lavorando, e detta un po’ brutalmente non avete di meglio da fare. Proseguo).

Perché Petrarca l’ha fatto? Certo, avrà ripreso il mito delle Parche, o Moire, sì, avrà citato il capello fatale di Ptereleao e Niso,

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avrà imitato Virgilio, nella morte di Didone (leggendo la quale Sant’Agostino piangeva).

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Sì, ma non può essere solo quello. Ma non è che intendeva pure lui “chioma”, ma crine c’entrava meglio per questioni di metrica? No. È il Petrarca, mica Max Pezzali.

Deve esserci un altro motivo.

Ok. Non è che voleva dire che, nel mezzo di una chioma scura, la Morte sapeva di dover recidere l’unico capello dorato? None, Laura ha le trecce bionde, non ricordate Chiare, fresche et dolci acque? O pensavate fosse di Mogol?

Caccialanza non si dà pace. In realtà già qualcuno prima di lui si era interrogato a proposito. Nel 1609, mentre Galileo inventava il cannocchiale, Tassoni si chiedeva:

«Però io non veggio come non sia benissimo finto che la morte per uccidere Laura di natura delicatissima non ebbe necessità di farla fulminar da Giove, come Capaneo, o di ferirla con spiedo porchereccio, ma che collo svellerle un solo capello, cioè con un’infermità leggerissima, l’estiunse».

!!!

Pur usando lo stesso «luogo», cioè la stessa immagine poetica, i due poeti delineano un paesaggio del tutto differente, opposto anzi.

Mh. Ma poi, siamo sicuri che sia opposto?

Secondo me è andata così: dentro la fragilità cretina di quel solo capello, Ariosto ha deciso di mettere tutta la mostruosità dell’invincibile, del portatore di Morte; Petrarca nel capello d’oro ci ha messo sì l’orrore della morte, che avanza delicata quando spegne, ma l’ha dotata di mano, di volontà. È una Morte che vede la bellezza di quella «gloriosa donna ch’è oggi ignudo spirto e poca terra», addirittura a un certo punto «bella parea nel suo bel viso», ma non si rassegna a soccombere, come un parassita, insieme alla morta, perciò le «svelle» un capello.

Forse è per invidia? No, dice lui «non già per odio, ma per dimostrarsi più chiaramente ne le cose eccelse».

La Morte come Byron, che resta affascinata dalla bellezza della donna, seppur virtuosa e non «rotta», e di fronte ai suoi capelli si stordisce e si specchia. Così ne prende uno per sé, non bastasse la vita. E infatti la vita non basta, se pure la morte ha la sua collezione di inutili capelli dorati.

 

 

PS inutile

Per furore di catalogazione: tutti i capelli protagonisti di questa storia – di Lucrezia Borgia, di Jane Austen, di Maupassant, di Laura, di Didone – sono biondi. Gli unici neri sono quelli della treccia di Baudelaire, che infatti è Baudelaire. Dei capelli del mostro Orrilo non sappiamo.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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