Francesco Jodice, l'importanza di coltivare il dubbio
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Francesco Jodice, l'importanza di coltivare il dubbio

Colloquio con il fotografo e filmmaker internazionale che mescola geopolitica e immaginario da videogame. Per mettere lo spettatore in una "condizione disturbante". E smontare comode certezze

Francesco Jodice è un tipo interessantissimo di artista contemporaneo. È multimediale (usa la fotografia, il video, la scrittura critica) e multicontinentale: da anni gira il mondo, intercettandone col suo lavoro lo spaesamento, le mutazioni.

Oggi gli artisti operano con lo scopo di lasciare un segno, per ricavarne subito il massimo della celebrità. Lei invece lavora su progetti a lunghissimo termine. Ritiene che questo modo di operare sia più adatto per interpretare il nostro tempo?
Penso all’arte come a un organo vitale del corpo sociale. L’arte filtra i fenomeni culturali, sia quelli istantanei sia quelli più radicati. Io raccolgo dal setaccio i sedimenti che reputo spuri, che percepisco come un’anomalia, e li elaboro in un processo che termina con l’opera d’arte e con la sua installazione, non solo nel museo ma anche nella società civile. Mi interessano opere che riescano a stare dentro e fuori lo spazio classico del museo. Recentemente ho realizzato una video indi stallazione nel Museo del Prado. Di giorno i film se ne stavano al fianco delle opere di Goya e Velázquez, ma di notte, attraverso le grandi finestre, l’opera "cadeva" sul paseo del Prado trasformando la piazza in una specie di cinema all’aperto per la comunità.

Lei parla di geopolitica, di mutamenti del paesaggio sociale e di antropologia urbana. Tutto ciò in contrasto con la vocazione ombelicale di molta cultura italiana, così refrattaria ai temi adulti.
Credo che uno dei diversi modi per suddividere gli artisti sia distinguere coloro che lavorano in modo introverso, traendo spunti da esperienze intime, e quanti lavorano costruendo processi relazionali che partono da un’esperienza del quotidiano e finiscono con il fare deflagrare l’opera dentro e fuori lo spazio dell’arte: nel museo ma anche in piazze, centri commerciali, blog, cinema. Citytellers (São Paulo, Aral e Dubai) è un progetto costituito da una serie di film sulle tensioni sociali e urbane nelle nuove cittàregione. E uso la forma del film per raggiungere un pubblico trasversale e imprevisto.

Lei ha spesso usato l’espressione "sguardo comprensivo dietro al mutamento delle cose". È questo il senso della sua arte?
Penso alla pratica dell’arte come a una poetica civile. Le cose intorno a noi sono cambiate e un’immagine della nostra vita slegata da quella degli altri sarebbe semplicemente irricevibile. Uso le mie opere fotografiche e filmiche come parassiti sociali che s’innescano nel tessuto della società. Penso all’arte come a un dispositivo «facente funzione» che s’installa dove il corpo è molle. Per esempio, nelle gallerie private faccio dei laboratori di arte e geopolitica con ragazzi. Questo Paese dagli anni Ottanta ha inscenato uno spaventoso processo di disintellettualizzazione delle masse e io opero in senso inverso. Spesso in modo violento. L’arte non deve essere edificante, deve educare alle rivoluzioni, personali o collettive, intellettuali o fisiche che siano.

Che modelli ha? E, per esempio, che rapporto c’è fra il suo lavoro e quello di un importante fotografo come suo padre Mimmo Jodice?
Nel mio lavoro cerco di orientarmi verificando costantemente due costellazioni: quella della storia dell’arte, una storia deviata, perché non sono uno storico, e quella della contemporaneità. Lavoro su fenomeni sociourbani in continuo divenire ma li filtro attraverso le pratiche di artisti che amo. Penso a fotografi quali Luigi Ghirri, Joel Sternfeld, William Eggleston, Robert Adams, e ad artisti contemporanei come Santiago Sierra, Felix Gonzales Torres, Alfredo Jaar, Marjetica Potrc. Mio padre mi ha insegnato a coltivare un’anomalia nello sguardo, un difetto della cornea che ti aiuta a trovare sulle cose di tutti i giorni un osservatorio laterale che non coincide con il senso e il luogo comune, un luogo non allineato.

Agli inizi del ’900 la città (dipinta, fotografata) era piena, l’arte intercettava l’insorgere della società di massa. Un secolo dopo i fotografi la svuotano: il disastro, il deserto, la purezza. Ciò vale anche per lei?
È così. Aggiungo che nelle mie opere fotografiche sull’urbanesimo e sul paesaggio sociale cerco di mettere lo spettatore in una condizione disturbante. La sovraesposizione dei paesaggi, la costruzione bidimensionale e geroglifica dell’immagine o l’assoluta mancanza di ombre sono tutti elementi di costituzione formale della fotografia che uso per disorientare lo spettatore. La fotografia è il luogo dove impariamo a formulare solidi dubbi, non un rettangolo che dia una risposta semplicista alle questioni poste dalla realtà. Davanti a una mia fotografia spero sempre che l’osservatore si chieda: "Ma che cosa sto guardando?".

Dal suo lavoro si ricava una tensione al racconto spesso assente in altri artisti.
Non credo all’arte autoreferenziale. Nessuna lingua oggi può esserlo. Amo i videogiochi e la cultura videoludica perché mescolano la struttura complessa e la durata del romanzo, amo la narrazione visiva del fumetto e la serialità tv, la fotografia e la regia del cinema, l’incoerenza "asistemica" dell’arte. La narrazione letteraria e la narrazione visiva hanno un’influenza enorme nel mio lavoro. Quando un giornalista chiese al famoso regista John Carpenter cosa fosse il cinema, lui rispose: "Hai 7 dollari? Ti porto in un luogo buio e ti racconto una storia".

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Marco Di Capua