Enrico Mattei, il principe statalista del petrolio italiano
A 50 anni dalla morte, resiste la sua idea di autonomia sul fronte energetico. Un esempio per l’attuale classe dirigente
Un botto e una palla di fuoco. Sono le 19 del 27 ottobre 1962, sul cielo di Bascapè, sopra la campagna pavese, esplode l’aereo dove viaggia il presidente dell’Eni Enrico Mattei. Poche ore prima aveva celebrato in Sicilia, nella provincia di Enna, la scoperta di un giacimento di metano. Riaffermando la sua professione di fede: "I tesori non sono i depositi d’oro ma le risorse messe a disposizione del lavoro umano". Non è solo uno straordinario imprenditore pubblico Enrico Mattei. C’è un’idea che lo muove dai tempi del suo arrivo a Milano negli anni Trenta, quando entra in contatto con gli ambienti del cattolicesimo sociale, ma che ha messo radici ancora prima, nella sua adesione giovanile al nazionalismo: l’idea d’una nazione indipendente, fondata sul lavoro e la giustizia sociale. Prima d’essere un capitano d’industria Mattei è un patriota e un combattente: elemento di punta della resistenza cattolica, non ha mai rinunciato all’idea dell’autonomia nazionale. Si batte dall’immediato dopoguerra, come commissario straordinario dell’Agip, per non dismettere la gestione pubblica dell’energia. Capisce infatti che la modernizzazione avviata dal fascismo non ha esaurito il suo compito e porta su questa posizione Alcide De Gasperi, inizialmente riottoso. Ma ha ragione Mattei: "Se c’è un’industria a favore della quale militano le ragioni del pubblico interesse" dice in un discorso alla Camera nel 1949 "è quella dei gas e del petrolio, che porterà a una profonda trasformazione di tutta la nostra economia". Mattei, da marchigiano tenace, incalza politica e opinione pubblica con questi argomenti. Le orazioni di quegli anni, ora raccolte nel volume pubblicato da Rizzoli, Scritti e discorsi 1945-1962 (1.060 pagine, 29 euro), sono di una straordinaria capacità persuasiva. Ma Mattei non vuole portare solo le trivelle in Basilicata, il metano nelle case degli italiani e fare buoni affari. Ritiene che per il Paese sia l’ora del riscatto da una guerra malamente perduta.
Immagina l’Italia come centro d’un impero di pace, fondato sull’intelligenza e l’energia, su una rete internazionale di relazioni proficue. Guarda all’Africa e al Medio Oriente – l’antica vocazione mediterranea dell’Italia – ma anche all’Oriente europeo e alla Russia. Riesce a disegnare uno scenario, in tempi di veloce decolonizzazione, in cui i paesi arabi possono emanciparsi dall’oligopolio petrolifero delle grandi corporation. Insomma non si limita a conquistare l’approvvigionamento delle fonti di energia, trasforma l’Italia in uno dei maggiori fornitori di infrastrutture per l’industria petrolifera. Ce n’è abbastanza per innervosire le grandi potenze, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa. E se infine riesce a trovare una composizione con le Sette sorelle il panorama internazionale è incandescente: "È vero" dice a Panorama lo storico Nico Perrone, di cui Il Mulino ha ripubblicato il saggioEnrico Mattei (168 pagine, 11,30 euro), "aveva trovato un ubi consistam con gli americani, ma siamo nell’ottobre 1962, è in pieno svolgimento la crisi di Cuba e Mattei, ricordiamolo, è visto come un pericoloso neutralista. Se non fosse che nei resti dell’aereo è stato trovato dell’esplosivo basterebbe questo a fare pensare che non fu proprio un incidente a toglierlo di mezzo".
"Un condottiero italiano" lo definì Giorgio Bocca. "Figura straordinaria" ripete Perrone. "Eravamo diventati la quarta potenza del mondo grazie alla sua impresa. Resa possibile dal fatto che dietro di lui c’erano culture e partiti politici dotati ancora del senso della nazione. Mattei è stato un’espressione del genio italiano e del pensiero nazionale, ancora in grado di esprimere una classe dirigente".