L'architettura di un amore. Barbara Radice racconta Ettore Sottsass
© Giovanni Gastel
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L'architettura di un amore. Barbara Radice racconta Ettore Sottsass

Moglie, complice, amante. È la donna che è rimasta a fianco del celebre designer fino alla morte. "Ci siamo incastrati"

«Aveva una moglie e incontrava un’amante». Ma ciò non gli impedì di  inseguirla e corteggiarla. «Correvamo insieme verso quel “tempo giusto” che permette all’amore di riconoscersi e incastrarsi. Anche se ci avessi provato sono sicura che non ci sarei mai riuscita. Ettore era un uomo fuori dal normale». Fuori dall’ordinario era anche l’età che vi separava. «Avevo   trentadue anni, lui ne aveva 59 ed era già Ettore Sottsass». Nella sua autobiografia “Scritto di Notte” (Adelphi), racconta che vi siete incontrati a Venezia e che un giorno, mentre salivate le scale, le fece questa confidenza: “Mi piacerebbe darti una pacca sul sedere”. «È vera la frase così come la mia risposta. “Perché non lo fai”?».

Provo così a rompere l’imbarazzo che mi prende dopo essere entrato a casa di Barbara Radice che è ancora casa “Radice-Sottsass”, come è possibile leggere sul campanello di questa abitazione nel centro di Milano. Le dico che mi sembra una casa piena ma lei mi risponde che invece le sembra vuota e che fossero proprio le case vuote quelle preferite da Ettore.

«Ci è sempre piaciuto questo vuoto. Sono queste le case degli uomini felici. Bisognerebbe saper abitare in case nude. Le nostre lo sono state». Quali sono state le vostre case? «La prima è stata quella di via San Galdino a Milano. Era di 50 metri quadrati. Era la casa dove abitavo. Un giorno Ettore mi ha detto che voleva buttare giù un muro. Pensavo scherzasse! Invece lo ha fatto veramente. Aveva bisogno di mettere in comunicazione due stanze per ricevere il sole tutto il giorno». Ne avete abitate altre? «In Sicilia, a Filicudi. Ci andavamo ogni estate. Ci torno ancora». In questa casa, dove adesso mi trovo, guardo i tavoli di Sottsass. Hanno il dono di non ingombrare ma di sbalordire e sostenere. Con la moglie ci sediamo nel salone e osservando gli oggetti, le penne, le agende, ritroviamo l’uomo e la memoria di lui che a pochi metri da questo appartamento, alla Triennale, sono oggetto di una mostra ancora aperta fino all’11 marzo. Per Sottsass è stata infatti organizzata una mostra ideata e curata dalla stessa Barbara Radice con allestimento di Michele De Lucchi e Christoph Radl. Le dico che mi è capitato di vederla spesso la mostra, anzi di rivederla e le rivelo che la sua presenza è ormai familiare anche tra i custodi. «Mi piace ritornarci. Accompagno visitatori speciali e amici. È come andare a trovarlo e dunque ritrovarlo». Sottsass è scomparso nel 2007. Si è spento in questa casa che sua moglie ha preteso non lasciasse neppure durante la malattia. «Un giorno mi ha chiesto se volevo che andasse in ospedale. Nell’ultimo periodo aveva un problema di discopatia. Si muoveva a fatica. Rimaneva disteso su questo divano. “Dimmi se ti disturbo” mi ripeteva. “Sei matto?” gli ho risposto. Non avrei mai sopportato che andasse via». Sottsass è stato cremato. Dove ha collocato le ceneri? «Sono qui, vicino a me». Le chiedo se abbia voglia di mostrare dove le custodisce. Accetta. Mi accompagna così nella sua stanza da letto che è anche la stanza dove insieme a suo marito ha dormito per più di trent’anni e indica un’urna dove riposa il suo Ettore. È sopra il capezzale del letto. A destra. «Io dormo dall’altra parte». Dopo la morte, Barbara Radice ha scritto ininterrottamente per due anni, ogni giorno. Le è servito? «Mi è venuto spontaneo. Sentivo che dovevo farlo. Era una necessità». I suoi fogli sono diventati un libro che Mondadori Electa ha pubblicato con il titolo “Perché morte non ci separi”. «Ho riempito 15 quaderni che conservo».

Si dice “Ti amo da morire” e si “promette “finché morte non ci separi”.

Ho pensato di sostituire “finché” con “perché”. Non parlo di Ettore al passato ma al presente. L’amore può continuare.

Quando è iniziato?

Era il 1976. Avevo conosciuto Ettore a Milano nello studio di Vittorio Gregotti. Eravamo entrambi a Venezia per la Biennale. Un giorno ero seduta su un vaporetto e vedo salire Ettore che arrivava da Milano. Mi saluta e mi invita a cena: «Ti aspetto». Poi a colazione il giorno dopo. E ancora a cena. Parlava sempre di sua moglie Fernanda Pivano e della sua fidanzata, un’artista catalana.

La incuriosiva o lo sopportava?

Lo lasciavo parlare. Pensavo che fosse solo e avesse bisogno di raccontare.

Forse era lei che aveva bisogno di ascoltare.

Può darsi. A quel tempo non avevo un fidanzato ma dei corteggiatori. Tuttavia non avrei mai pensato di innamorami e sposarmi con uomo più vecchio di me. Tanto più con quelle relazioni complicate. Lo avevo in seguito intervistato a proposito di un suo lavoro fotografico, concettuale, che ancora oggi considero bellissimo: “Metafore”. L’intervista gli era piaciuta. Ma dopo l’intervista mi ha chiamata di nuovo per invitarmi a cena! Il titolo dell’articolo era “Ettore Sottsass e i Memphis Blues” (dove compare per la prima volta il nome “Memphis” poi utilizzato per il collettivo di artisti e designer fondato da Sottsass nell’81). Memphis era parte del titolo di una canzone di Bob Dylan che Ettore canticchiava quel giorno... Una volta, ancora a Venezia, mi ha invitata a cena sul Monte Bianco. Mia sorella, allora mia ospite, chiede: «Ma ti corteggia?». E io: «Ma figurati!».

 Dissimulare è corteggiare.

Ettore stava vivendo un momento complesso. Si stava separando dalla moglie con cui aveva vissuto a lungo e aveva avuto una relazione molto intensa con un’artista. Ho capito che mi corteggiava solo quando mi ha invitata a cena fuori dopo l’intervista. Siamo andati al Charlie Max. Era un locale di piazza Diaz, a Milano. Avevamo bevuto molta vodka ed Ettore si era tolto le scarpe per ballare. Alla fine un cameriere le ha riportate su un vassoio.

Fu allora che lasciò la Pivano?

Vivevano una crisi già da quattro anni. Dopo la notte del Charlie Max era partito per un lungo viaggio e mi chiamava ogni giorno. Quando è tornato in Italia è venuto ad abitare da me. Aveva preso un grande sacco nero della spazzatura per raccogliere pochi abiti nella vecchia casa. Così abbiamo cominciato la nostra vita insieme.

Eugenio Montale, in una sua poesia, immaginava che l’amore potesse continuare con un fischio: “Avevamo studiato per l’al di là/ un fischio, un segno di riconoscimento...”. So che anche lei ha scritto poesie. Me ne mostri una scritta per Ettore che gli piacesse...

 “Sarò il tuo menestrello/ sull’acqua del tuo fiume...”. Oggi di Ettore stringo le giacche. Mi piace indossarle.

Le sceglieva lei?

Qualche volta sì. Erano piccoli regali.

Sottsass, ha disegnato anche gioielli. Ne conserva?

Quelli disegnati negli anni ‘60 sono nella collezione del Centre Pompidou. Suo è l’orologio che porto al polso. Ma più dei gioielli mi sono cari i disegni e i biglietti che ci scambiavamo. Centinaia. Pezzi di carta.

Che biglietti erano?

Affettuosità, saluti, annotazioni. Ci scrivevamo sempre. Era il nostro modo di salutarci quando uscivamo di casa per andare al lavoro o per spese.

Ha sempre scritto a stampatello?

Preferiva scrivere a stampatello perché pochi in corsivo sarebbero riusciti a a leggerlo. Ma era anche un modo per ripensare quello che aveva scritto. La sua scrittura era difficile da leggere. Forse scriveva a stampatello perché aveva molte emozioni dentro e aveva bisogno di un ordine fuori. Oggi i suoi libri sono editi da Adelphi. Alcuni sono già raccolti in volume con il titolo “Per qualcuno può essere lo spazio”. Altri usciranno con il secondo volume il prossimo anno.

Ai giovani piace ancora la sua irregolarità e infatti ne rileggono i testi che erano già veloci come un tweet ma pieni di pensiero.

Diceva che l’opera di un’artista era la vita. Era un irregolare. Non gli piacevano gli istituti e le istituzioni, tutto ciò che chiude. Amava l’imprendibile, l’incerto. A volte tornava con una bottiglia di vodka. Gli piaceva bere. Piaceva anche a me. Lo facevamo insieme.

Immagino prendesse sonno tardi.

Ma cenavamo sempre alle 8 di sera. In questo siamo stati abbastanza regolari.

Ha mai cucinato per lei?

Una volta ha provato a cucinare una minestra. Ma era immangiabile. Cucinavo io per lui. Quando finiva di mangiare mi ringraziava: “Grazie Barbarina”. Lo ha fatto sempre. Non se ne è dimenticato neppure una volta.

“Barbarina”?

Mi chiamava così.

Spendeva?

Non si risparmiava. Ma aveva conosciuto la fame. Il periodo difficile del dopoguerra. È stato sempre più famoso che ricco. Ed era soprattutto generoso. Quando ci siamo incontrati era senza un soldo. Aveva speso tutto. Quando abbiamo deciso di comprare la casa di Filicudi era il 1982. Costava poco ma non avevamo i soldi necessari. Ce li ha prestati mio padre (anche lui artista. Mario Radice).

Riusciva a contenerlo?

Gli toglievo i soldi che trovavo nelle sue giacche e li mettevo in un salvadanaio che avevamo deciso di comprare. Una specie di gioco.

Avete scelto di non avere figli.

Ettore non li voleva. È stato gentile e me lo ha detto subito. «Non so badare a me stesso e non so cosa farei con un figlio… Però se per te è molto importante…». Nello stesso tempo pensava che i figli fossero diventati quasi dei beni di consumo. Come le automobili e i frigoriferi.

Non se ne è mai pentita di non aver avuto bambini?

No. Con Ettore tutte le possibilità dell’incesto erano presenti. Per me è stato padre, amante, marito, fratello, figlio. Ci siamo dondolati.

Cosa significa “dondolati”?

È quel sapere stare insieme nei piccoli tragitti. Andare a comprare il gorgonzola, uscire di casa e andare al cinema, fare una passeggiata al parco. Significa sapersi muovere insieme nonostante non si abbia una direzione.

Era malinconico?

Era un uomo riservato e tutti gli uomini riservati sono malinconici. Era dominato dal dubbio ininterrotto e dalla consapevolezza dell’incertezza. Era accattivante, cortese, gentile e delicato. Un giorno mi sono messa a piangere. Mi ha chiesto la ragione. Gli ho detto che piangevo perché sapevo che sarebbe morto prima di me e che io sarei stata infelice. Negli ultimi giorni, a volte, parlava come potesse allontanare la morte. «Sto ancora qui per te. Mi trattengo un altro po’».

Non ha mai messo in dubbio la sua fedeltà?

Certo che l’ho messa in dubbio. Avrei dovuto essere gelosa ma non lo ero molto. Credo fossi incosciente. Ettore era possessivo ma senza esagerare. Anche noi abbiamo avuti momenti difficili. Ma non ci siamo mai perduti. Siamo stati una certezza l’uno per l’altra.

Come avrebbe disegnato l’al di là?

Diceva che l’al di là era “sopra la tettoia”. impossibile parlarne..

Un’urna, forse?

Un giorno le sue ceneri verranno sparse.

Cosa aspetta?

Che le mie si uniscano alle sue.

Ha mai pensato dove?

Forse a Filicudi. Ho anche pensato che mi piacerebbe far murare fuori dalla casa una piastrella con una frase.

Ce la legge?

«Questa casa è stata abitata da Ettore e Barbara Sottsass, che hanno passato qui ventisei bellissime estati e qualche mese di inverno negli anni 1982-2007. Auguriamo altrettanto felicità a chi la abita adesso».


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Carmelo Caruso