Steven Spielberg
Neilson Barnard/Getty Images

Ready player one, intervista a Steven Spielberg: "Immaginate, gente, immaginate"

Sarà sempre più facile farlo con la realtà virtuale, dice il regista più famoso del mondo all'uscita del film. "Ma non diventatene dipendenti, ragazzi". E confessa che anche lui ha rischiato di rimanere incastrato in un mondo parallelo

Sono finiti da tempo gli aggettivi per definire Steven Spielberg, e quelli che, a precisa domanda, ha proposto lui ("sognatore", "curioso", "testardo"), sono così banali e riduttivi che magari esaltano l'uomo e la sua normalità confinante con la modestia, ma non certo l'artista inimitabile. Diciamolo ancora una volta: Spielberg è semplicemente il regista più famoso e amato del mondo.

La trama di Real player one

Lo scorso dicembre ha compiuto 71 anni, ma non ha perso niente del suo entusiasmo e della sua energia. La conferma è il suo ultimo film, Real player one, nelle sale italiane dal 29 marzo. La storia: siamo nel 2045 in un mondo devastato da crisi energetica, mutamenti climatici, carestie, povertà, epidemie e continue guerre. Sono solo due le "vie di fuga": avere un avatar o riuscire a entrare nell'Oasis (acronimo di Ontologically anthropocentric sensory immersive simulation), vivere cioè nella realtà virtuale. L'Oasis è stato creato dall'eccentrico miliardario James Halliday; alla sua morte l'erede sarà chi riesce a vincere nel videogame inventato per l'occasione, Anorak.

Spielberg ha girato il film un anno e mezzo fa, dal luglio al settembre del 2016, ma siccome prevedeva una lunga post-produzione per gli effetti rivoluzionari della realtà virtuale, invece di prendersela comoda nel frattempo ne ha girato un altro, The Post, al volo, in appena cinque mesi mesi, ottenendo la sua diciassettesima nomination all'Oscar. Di statuette finora ne ha vinte già tre, più l'Irving G.Thalberg memorial award, una sorta di Oscar onorario.

Ha anche assemblato una strabiliante quantità di onorificenze in tutto il mondo: medaglia presidenziale della Libertà (Atati Uniti), Cavaliere dell'ordine della legion d'onore (Francia), Croce al merito (Germania), Cavaliere di Gran Croce (Italia), Cavaliere dell'ordine del sorriso (Polonia) e Commendatore dell'ordine dell'impero (Regno Unito).

Settantuno anni sembrano una gran quantità di tempo, specie considerando che quando è nato, il presidente americano era Harry Truman e il papa Pio XII, e che poi ce ne sono stati altri 12 (presidenti) e altri quattro (papi). Ma il tempo trascorso è poco se si pensa che la sua filmografia va ben oltre i 200 titoli: 56 da regista, 22 da sceneggiatore e 161 da produttore. Il suo prossimo film potrebbe essere il remake di West side story. È da 40 anni che Spielberg aspetta di misurarsi col suo primo musical.

Ready player one parla del futuro, ma è pieno di riferimenti alla cultura pop del passato, soprattutto degli anni Ottanta.

Intervista a Steven Spielberg

Lei si definirebbe un nostalgico?
"Assolutamente reo confesso. Sono il più grande 'ricordatore', ammesso che si dica così, della mia famiglia. Intanto, mia moglie Kate è molto più giovane di me, e si arrabbierebbe se non lo sottolineassi (71 anni contro 64, ndr.): lei non ama tornare indietro tanto quanto me, che a casa ho tutte foto di almeno 15 anni fa. Penso che la nostalgia sia un sentimento positivo così potente che fa sì che le persone si uniscano per condividere i ricordi; e la condivisione della memoria collettiva è di grande conforto, specie quando il mondo non è nella sua fase più felice. E ora per favore non mi chieda di Donald Trump. Proviamo a fare un gioco: un'intera intervista senza mai nominarlo".

Le fa paura invecchiare?
"Mia madre Leha se ne è andata l'anno scorso a 97 anni, mio padre Arnold invece a febbraio ne ha compiuti 101. Diciamo che per fortuna a noi Spielberg la vecchiaia è sempre sembrata qualcosa di molto naturale".

È vero che all'inizio pensava solo di produrlo Ready player one, affidandolo a un regista più giovane?
"Sì, ma non per ragioni anagrafiche. Nel romanzo omonimo di Ernest Cline c'erano così tante citazioni dei miei film, che non volevo si pensasse che lo usavo come lo specchio magico di Biancaneve per farmi rassicurare che ero: 'Il più bravo regista del reame...'. Poi, riflettendo, mi sono detto che a chiunque altro lo avessi delegato, avrebbe potuto usare personaggi dei miei film più famosi, come se fossero dei micro remake. Ed è quello che ho fatto io: ho lasciato un paio di autocitazioni, una per il regista Spielberg e una per il produttore Spielberg.

La mitologia vuole che prima di cominciare un film, per entrare nel mood giusto, lei riveda sempre gli stessi quattro epici capolavori: I sette samurai, Lawrence d'Arabia, La vita è meravigliosa, Sentieri selvaggi. Stavolta ha aggiunto qualcosa di più pertinente?
"No, però ho incontrato sia James Cameron che Peter Jackson, i maestri indiscussi della motion capture, e due fra i miei migliori amici. Non c'erano altri a cui potevo esternare i miei dubbi, senza che tirassero fuori il violino e mi suonassero qualche aria sentimentale".

Lei non fa mai film senza una morale. Quale è quella di Ready player one?
"Videogame e realtà virtuale possono essere divertenti, ma, ragazzi, cercate di non diventarne dipendenti, perché altrimenti passerete la vita in casa davanti a uno schermo senza scoprire niente di nuovo di quello che offre la vita reale. Ogni tipo di dipendenza è negativa. E lo dico per esperienza".

Davvero? Dipendenza da cosa?
"Da tutto. È il motivo per cui non sono su nessun social media, né Facebook, né Twitter, a differenza di Tom Hanks. Sono stato a lungo dipendente dai videogame. Avevo una piccola sala giochi nell'ufficio della Amblin e quando giravo E.T. mi portai Missile command sul set, collegandolo anche nelle scene nella foresta al gruppo elettrogeno della troupe. Dovevo battere il record di un milione di punti e ci riuscii. Oggi gioco solo sull'iPhone: quando sono passate un paio d'ore, mi viene il senso di colpa su quello di produttivo avrei potuto fare in quel tempo, magari portando dei benefici al prossimo, invece di pensare egoisticamente a me stesso sfidando sconosciuti con l'idea di vincere. Prima di cominciare quest'intervista ho consegnato il cellulare alla mia assistente perché lo tenesse in ostaggio...".

Niente droghe ai tempi eroici? Lei è della generazione che ha fatto il Sessantotto...
"No, né marijuana né Lsd. Sono anche astemio, e non ho mai bevuto un caffé in vita mia. Mi ha sempre spaventato perdere il controllo. Anche da giovane. Avevo i miei filmini 8 millimetri da fare".

Se non fosse riuscito a diventare un filmaker, aveva un piano B?
"Quando ero piccolo sognavo di diventare un compositore. Ma non avevo talento. Probabilmente sarei finito a fare il maestro di scuola. Mi piace insegnare".

Che cosa pensa che i suoi figli avranno in futuro che lei non ha avuto?
"Cose che io ora neanche posso ipotizzare. Per usare uno slogan, potranno avere tutto quello che riescono a immaginare. Ed è l'immaginazione che ci fa compiere progressi. Perché la tecnologia stimola la creatività oltre le soglie di quello che sembra al momento possibile".

Anche questo film è pieno di giovani attori. Quale è il segreto per lavorare con i bambini, che secondo i veterani di Hollywood sarebbero una delle tre cose da evitare, insieme agli animali e all'acqua?
"Ho sempre avuto una dimestichezza naturale con loro, tanto è vero che con mia moglie ci siamo trovati immediatamente d'accordo nel formare 'la tribù Spielberg' ( tre figli naturali, uno dal precedente matrimonio di lei, uno da quello di lui, e due adottivi, ndr). Ricordo che Melissa Matheson, ex moglie di Harrison Ford, mi diede il consiglio più importante. Era la sceneggiatrice di E.T. e dopo aver visto le prime scene con Drew Barrymore, che allora aveva sette anni, mi prese da parte: 'Quando parli con Drew, perché non ti abbassi alla sua altezza?'. Da allora mi chino o mi inginocchio, perché è decisivo che i bambini sentano che siamo allo stesso livello. Qualunque età abbiano, vogliono essere trattati da colleghi, simili, pari grado. I bambini desiderano crescere molto più in fretta di quello che noi vorremmo".

Cosa risponde ai ragazzi che le chiedono cosa è il cinema?
"Un lavoro in cui ti pagano per sognare".

E alla domanda successiva: come si comincia?
"Facendo film. Oggi è molto più facile di quando ero giovane io, basta un semplice cellulare. Nessuna teoria sarà mai meglio della pratica".

Lavorando così tanto, come è riuscito a essere un buon marito e un buon padre?
"Grazie a mia moglie. Mi ha costretto a inserire nei miei contratti la clausola che dovevo uscire dall'ufficio massimo alla sei e mezza per essere a casa per l'ora di cena. E la mattina, sono sempre io a preparare la colazione. Quando invece giravo un film, tutta la famiglia mi veniva a trovare, almeno nei weekend. Ma i miei figli hanno trovato la vita del set così noiosa, che nessuno di loro ha voluto dedicarsi al cinema".


(Articolo pubblicato sul n° 14 di Panorama in edicola dal 22 marzo 2018 con il titolo "Immaginate, gente, immaginate")

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Marco Giovannini