Il "San Sebastiano" di Raffaello all'Accademia Carrara di Bergamo
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Carrara, l'Accademia delle meraviglie

Riaperta la pinacoteca di Bergamo dopo sette anni di restauri. Con 600 capolavori. E un allestimento senza errori

Basta un rapido giro per capire che siamo in uno dei musei più belli d’Italia. Ci sono voluti sette anni di lavori: restauri, ristrutturazioni, interventi tecnologici. Ma ora l’Accademia Carrara di Bergamo (riaperta dal 30 aprile) può competere con le migliori pinacoteche d’Europa.

Non soltanto per i grandi nomi alle pareti. Non solo per i capolavori esposti. Ma anche per il criterio espositivo: un approccio museografico che fa di ogni sala una piccola mostra in sé: compiuta, articolata, aperta a diversi livelli di lettura.

«Questo San Sebastiano di Langetti era finito dietro un tavolo della Questura di Bergamo. Guardava i poliziotti organizzare i blitz contro la malavita. Sono andato di persona a riprendere l’opera». È palpabile l’orgoglio di Giovanni Valagussa, conservatore della pinacoteca. Insieme con la direttrice Maria Cristina Rodeschini, e con una commissione d’esperti, ha recuperato dipinti che erano stati dispersi in uffici pubblici, ha selezionato le 600 opere (fra le quasi 2 mila della collezione), ha progettato il nuovo itinerario di visita.

Davanti al bassorilievo di Donatello, che accoglie i visitatori, snocciola filosofia e dettagli. «Non è un caso che lì di fianco ci sia un Mantegna. Sono due opere dirompenti. Lo dimostrano le altre in questa sala. Crivelli, Tura, Jacopo Bellini. Si vede bene come, attraverso Donatello, la prospettiva del Rinascimento fiorentino abbia contagiato il nord».

Si procede in ordine cronologico. Ecco i Tre crocifissi di Vincenzo Foppa, altra opera capitale, «punto di snodo nella pittura lombarda». Ci si riempie gli occhi con le cinque opere di Giovanni Bellini, nella sala successiva. Capolavori che «da soli giustificherebbero una visita». Voltate le spalle: avrete di fronte Jacobello di Antonello da Messina. Fra i due artisti corre l’asse portante di quella pittura veneziana che avrebbe dominato Bergamo per secoli.

Bellezza e vicende storico-artistiche s’intrecciano in ogni sala, come in quella dedicata a Firenze, dove c’è il Botticelli che fu comprato a un monte di pietà, a Roma, nell’800; e dove ci sono Pesellino, Benozzo Gozzoli, Benedetto da Maiano, in una sequenza degna di un grande museo fiorentino.

È con Raffaello che il crescendo tocca l’apice, ecco il suo San Sebastiano, l’opera più celebre della Carrara, «con una luce trasparente che è frutto del recente restauro di Brera». Pintoricchio e Perugino ci tuffano nel cuore dei «problemi raffaelleschi», a ribadire che ciascuna delle 28 sale è concepita come una breve rassegna ricca di senso estetico e storicoartistico, anche quando si procede per «temi» anziché per «problemi», come accade nelle sale con le nature morte di Evaristo Baschenis o con le vedute di Guardi, Canaletto e Bellotto.

Si respira aria domestica. Le opere sono quasi tutte di piccolo formato. Nate per la committenza privata. Collezionate (e donate) dall’aristocrazia locale. Ed è per questo che ora campeggiano così: com’erano alle pareti di quelle ricche case bergamasche dell’Ottocento, appese un po’ più in basso, non come siamo abituati a vederle nelle gallerie italiane, ma come in certi musei americani.

Non è soltanto un omaggio all’indicazione leonardesca (di mettere l’effigiato non più in alto di chi guarda), è un’attenzione ai disabili e ai bambini, in una pinacoteca che prima della ristrutturazione non aveva nemmeno gli ascensori.

Quadri preziosi, da guardare da vicino, come Dürer, i fiamminghi, Lorenzo Lotto (è qui il più importante corpus al mondo del pittore bergamasco). Quattro secoli di grande arte scorrono riorganizzando i frutti di un collezionismo illuminato, risultato delle 240 donazioni ottenute in 200 anni di storia, le più cospicue delle quali sono firmate da Carrara, Lochis e Morelli.

Ecco allora il ricco nucleo dei leonardeschi. C’è il lascito di Federico Zeri, studioso di pittura ma eccentrico collezionista di scultura. Ci sono Tiziano e Jacopo Bassano. E ci si allontana dal passato con i liquidi bozzetti di Tiepolo, con Francesco Hayez e con un Piccio vaporoso come un Correggio.

È ossigeno puro, infine, nell’ultima sala. Spicca un superbo Fontanesi. Alle pareti, vedute di natura. Consuonano in affinità. Soltanto una stride: è l’ultima che si offre al visitatore, Ricordo di un dolore, di Pellizza da Volpedo. Una donna abbandona il suo libro e volge lo sguardo al passato. Che cosa centra fra questi paesaggi? Nulla. È l’unico errore in un museo senza errori. Uno sbaglio voluto e felice, però: con Pellizza l’Ottocento si chiude. Inizia il secolo dei sentimenti. L’orizzonte, d’ora in poi, sarà un paesaggio interiore.

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Antonio Carnevale