Il sole non sorge più ad Est, cap. III

Nel 1956 il comunismo sovietico non poteva essere innocente. C’era stato Stalin, c’erano state le grandi purghe, la burocratizzazione del regime e la trasformazione della giovane repubblica socialista, con i suoi eccessi fatti di entusiasmo e di ardore, in un …Leggi tutto

Nel 1956 il comunismo sovietico non poteva essere innocente. C’era stato Stalin, c’erano state le grandi purghe, la burocratizzazione del regime e la trasformazione della giovane repubblica socialista, con i suoi eccessi fatti di entusiasmo e di ardore, in un gelido organismo che annientava per calcolo intere classi sociali e innumerevoli individui finiti in mille modi nella lista dei nemici.

E c’era stata la guerra, con i suoi orrori e le sue brutalità, e poi la rapidità con cui, rotti i sogni democratici, i paesi dell’Europa centro-orientale liberati dall’Armata Rossa erano diventati satelliti controllati e più o meno sottomessi.

Eppure, in virtù della legittimazione morale data dall’aver schiacciato Hitler, e più ancora per la forza inesauribile che aveva saputo mostrare nel momento più grave, l’Urss pareva il modello vincente, pareva il futuro dell’umanità; molti lo speravano, molti altri lo temevano, certi altri infine già pensavano a come si sarebbe dovuta coniugare la necessità della giustizia socialista con quella della libertà e dell’umanità di tutti.

Ma soprattutto l’Unione Sovietica, dittatura del proletariato e novella superpotenza, era ancora un qualcosa di eccezionale: lo stato che aveva rivoltato secoli di progressiva sottomissione degli umili e dei lavoratori, che aveva cancellato lo sfruttamento che fino ad allora era stato connaturato alla storia umana.

Per tutto questo, se era difficile credere alla moralità e alla purezza dell’Unione Sovietica, pure nel 1956 era difficile non credere alla sua straordinarietà. E l’arrivo al potere di Nikita Chruščëv, la sua denuncia dei crimini di Stalin, la stessa figura rassicurante e bonaria da contadino ucraino (a margine: si può sostenere che la metà degli anni ’50, che vide al vertice del mondo gli ex operai Chruščëv e Eisenhower, fu un trionfo insuperato per gli ideali che avevano smosso il mondo dalla Rivoluzione francese in poi), tutto aveva contribuito a ridare al sogno del socialismo quella forza propulsiva che si era persa negli anni prebellici.

L’invasione dell’Ungheria cancella ogni cosa, e non perché fu un evento eccezionale, come certi sostennero: anche in Urss ben pochi – e Chruščëv non era fra questi – credettero che si trattasse della salvezza del Patto di Varsavia e dell’intero campo socialista. L’intervento, sollecitato più che altro dall’ala dura dei comunisti ungheresi e in particolare dal terribile Rákosi, fu deciso quando Chruščëv temette che un’impressione di debolezza e irresolutezza avrebbe potuto renderlo facile preda dei falchi all’interno dell’Urss; ad esso comunque si oppose un pezzo grosso come Mikojan, il quale anzi aveva ottenuto l’allontanamento di Rákosi da Budapest (adducendo, come nella tradizione comunista, una malattia da curare in qualche sanatorio della Crimea). In ogni caso il dibattito interno e l’indecisione dell’Urss durarono giorni e giorni; il che dimostrò a tutti coloro che volevano vedere che l’invasione non fu affatto una necessità, anche ragionando secondo il più freddo realismo politico.

Il che non significa che la decisione sovietica fosse folle; esistevano delle ragioni valide, in un certo senso, ma erano appunto ragioni di normale politica e di normale imperialismo. La potente e coraggiosa patria degli operai e dei contadini, nel momento in cui spediva le proprie truppe a schiacciare gli operai magiari (che mai fecero mostra di voler portare avanti una controrivoluzione, né – per essere ungheresi – peccarono di eccessivo nazionalismo), non esisteva più.

Questo portò molti a fuggire o perlomeno a disamorarsi di quel socialismo che stava diventando troppo reale e che era ormai difficile colorare di spinte ideali che vivevano più e di speranze che diveniva difficile coltivare.

Dopo di allora, il campo socialista, che si era nutrito di vigore e di futuro, basò la propria esistenza sul tranquillo immobilismo e su quell’equilibrio comunmente detto del terrore che doveva reggere altri trent’anni. Ma nel 1956 la fase romantica e mitica del comunismo finì per sempre, come nel 1936/37 Stalin aveva posto fine all’innocenza dell’Urss: e non valse più far notare che il comportamento dei russi a Budapest era stato esattamente quello degli inglesi e dei loro fantocci greci nell’Atene partigiana del 1945 e degli successivi: il problema era proprio quello, che l’Urss cioè non si distingueva più.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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