Massimo Bubola, Ballata senza nome
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'Ballata senza nome', intervista a Massimo Bubola

Con la sapienza di chi conosce la potenza delle parole, Bubola ricostruisce la memoria dei caduti nella Grande Guerra, regalando loro undici ballate

Massimo Bubola, uno dei più importanti protagonisti della scena musicale italiana degli ultimi decenni, negli ultimi anni si è dedicato alla riscoperta del patrimonio artistico, musicale e storico legato alle vicende della Prima guerra mondiale, e che da questo lavoro oltre a diversi album ha tratto anche un interessantissimo libro, appena pubblicato da Frassinelli, intitolato Ballata senza nome.

Massimo, cominciamo dall’aspetto storico. In questi giorni ricorre il centenario di Caporetto, che ci porta ovviamente a ripensare a cosa ha rappresentato per l’Italia la Prima guerra mondiale. Qual è il tuo giudizio, da artista e intellettuale, su quegli avvenimenti, anche alla luce di come si è sviluppata la storia italiana nei cento anni successivi?

La Grande Guerra è stato lo spartiacque di molte cose. La fine dell'Europa della restaurazione e del congresso di Vienna. L'inizio dell'industrializzazione e delle diffuse migrazioni interne nelle grandi città. La trasformazione sociale di tanto bracciantato contadino in proletariato urbano. Una nuova e potente migrazione nelle Americhe da paesi come l'Italia, la Grecia, la Spagna, la Polonia e il Portogallo. Le nuove tecnologie sorgenti da quelle meccaniche a quelle elettriche. L'invenzione della ferrovia, sperimentata per il trasporto delle truppe al fronte, come sistema di lungo trasporto. Nuovi mezzi d'arte e di comunicazione come il cinema, la radio e la grafica cartellonistica della prima pubblicità. La comunicazione di massa e la sempre maggior diffusione della carta stampata.

Veniamo ora al tuo lavoro: è vero che negli ultimi anni la tua attenzione alla Prima guerra mondiale si è accentuata, ma è comunque un tema che è sempre stato presente nella tua opera, come testimonia "Andrea", la celebre canzone che hai scritto per Fabrizio De André.  Da dove deriva questo tuo appassionato interesse per le vicende di quegli anni drammatici?

Questo mio forte interesse e coinvolgimento nelle vicende della Prima Guerra Mondiale è derivato al principio dai racconti di mio nonno che ha combattuto sul Piave e dal ricordo struggente vissuto in famiglia per un mio prozio morto sul Grappa. La Grande Guerra ha esercitato sempre su di me un fascino epico, in un paese che manca a tutt'oggi di un'epica condivisa. Ci sono poi le canzoni a correlare il tutto. Le canzoni nella storia hanno fatto più di tante battaglie. Sono i primi brani che ho imparato e poi ho sempre cantato con mio nonno e mio padre e i miei compagni di gite in montagna e sono un vero patrimonio di poesia e una mappa dei sentimenti di cento anni fa. Le canzoni della Grande Guerra non sono canzoni contro un nemico o canzoni d'odio, ma semmai canzoni contadine come Ponte de Priula o di minatori come Ta Pum o di mondine come La Tradotta e comunque canzoni di nostalgia e di assenze: la madre, la morosa, il paese, un letto bianco, un pasto caldo e di disagio: il freddo, la fame, il cecchino, la neve.

Queste canzoni sono un percorso antropologico visibile ad occhio nudo e udibile nella sua poesia efficace e sonora, testi che documentano una visione del mondo e una profonda epopea emotiva.

Il mondo letterario italiano, spesso malato di accademismo e di una certa ottusità, non ha mai considerato queste grandi canzoni come una vera letteratura. A questo va aggiunta l'esecuzione corale di questi brani che – in particolare durante il regime fascista che ha spinto fortemente sulla retorica della Vittoria - ha finito con l'influenzare questo repertorio, con arrangiamenti vocali sempre più enfatici e leziosi, complicati e barocchi, che hanno fatto perdere di vista le composizioni originali a due o tre voci, annacquando e sbiadendo così testi e significato. 

Il tuo libro ha un titolo molto originale, Ballata senza nome, e una fascetta altrettanto evocativa, "La Spoon River della Grande Guerra". Puoi spiegarci in che modo queste parole ci raccontano il contenuto del libro?

Il libro ha un impianto drammaturgico ed è ambientato in una chiesa, in questo caso una delle più antiche della cristianità: la basilica di Aquileia. Una donna, Maria Bergamàs, scelta dalla commissione parlamentare istituita per la scelta e le celebrazioni del milite ignoto, deve indicare quale tra le undici bare di soldati senza nome, dovrà essere trasportata a Roma e inumata sull'altare della patria. 

La cerimonia affollatissima si svolgerà il 28 ottobre e il mattino dopo partirà un apposito convoglio ferroviario che in quattro giorni porterà la salma a Roma. Il treno verrà seguito nel suo lento percorso da Aquileia a Udine, Padova, Venezia, Bologna Firenze e Roma da ben otto milioni di persone. La manifestazione più unitaria che ebbe il nostro paese fino ai nostri giorni.

Il mio intento è stato di ridare la voce a soldati che avevano perso tutto, anche il loro nome. La mia intenzione poetico-letteraria è stata l'arbitrio di rimediare a   una crudeltà e un'ingiustizia del destino nei confronti di questi soldati morti senza croce e senza nome. Ho cercato di ridargli un’identità, un percorso, dei sentimenti, una storia e una famiglia credibile per quanto immaginaria. Ed infine ho fatto scegliere a Maria Bergamàs come milite ignoto, tra gli undici, la seconda bara, quella di un soldato che fu poco amato dai genitori, dalla fidanzata e dai suoi compagni di guerra. Il suo nome è Vittorio Savoldelli ed era di Clusone, un paese nella bergamasca.

Nel libro le voci di questi soldati caduti sono davvero curate, liriche e realistiche nello stesso tempo, convincenti e commoventi, come del resto i testi delle tue canzoni. Che tipo di lavoro hai fatto per ricostruire la lingua di questi uomini di un secolo fa?

Il mio è stato un processo di transfert, dopo aver letto migliaia di lettere da e per il fronte e altri documenti di approfondimento sulla vita di trincea, i turni di guardia, gli equipaggiamenti, le direttive militari sulla disciplina e le pene dei tribunali militari, l'alimentazione, il tipo e l'uso delle armi, gli effetti delle bombe d'artiglieria leggera e pesante, gli shrapnel, le bombarde, i gas e quant'altro. Ma quello che più mi è servito è provenire da una famiglia patriarcale della bassa veronese ed aver condiviso da fanciullo quella visione del mondo e del soprannaturale.  Infine l'aver fatto il militare a fine degli anni sessanta a Cividale del Friuli e aver fatto i campi e le esercitazioni dormendo nelle tende sotto la pioggia e poi le eterne notti di guardia sopra le mura della caserma d'inverno a meno venti gradi e spesso sotto la neve e infine l'aver conosciuto le valli della disfatta come quelle del Natisone e i nostri monti sopra Caporetto come il Matajur. A questo aggiungo le peregrinazioni fin dall'adolescenza, tante con mio padre, in molte trincee da Folgaria in Trentino, al Pasubio, all'altopiano di Asiago e poi sul Lagorai e sulla Marmolada ed infine sui monti di Gorizia, come il Podgora, il Sabotino, il san Gabriele e il Monte Santo, ed infine sul Carso, il Monte Canino, il Monte Nero e a Caporetto dove scorre il bellissimo fiume smeraldino Isonzo.

Ultima domanda: sei più volte intervenuto pubblicamente, ai tempi del Nobel a Dylan, sulla questione del rapporto tra musica e letteratura. Puoi riassumerci quello che pensi dell’argomento?

Il Nobel ha sempre avuto storicamente due percorsi, uno di scoperta e proposizione di scrittori e poeti sconosciuti e l’altro di sancire un grande percorso già acclarato. Il riconoscimento a Dylan appartiene al secondo caso. La mia esperienza di almeno quaranta premi Nobel alla letteratura è sempre stata quella di profonde polemiche per i motivi sopracitati. O perché gli scrittori erano poco conosciuti o perché lo erano troppo. Molti in Italia che non conoscono l'opera di Dylan lo pensano come una rock star famosa, disconoscendo la grande letteratura che ha viaggiato attraverso le sue canzoni. È come se pensassimo ad Omero come a un buon musicista solo perché accompagnava la lettura dei suoi romanzi epici, nelle corti greche, intonando e giovandosi di una piccola lira a forma di tartaruga. La regressione culturale e storico-letteraria che è venuta alla luce in occasione del Nobel a Dylan è veramente allarmante. Ho letto molti commenti stizziti sul Nobel a Dylan, tra cui quello di Magrelli o come quello di Alessandro Baricco che paragonava la canzone, che è madre e prima forma di poesia, a un’altra arte come l’architettura o da porre nella categoria di arte varia (sic!), come se le canzoni non contenessero una parte letteraria assieme alla musica. Come se Prevert, quando scriveva Les Feuilles mortes (che era all’inizio solo una poesia, poi fu musicata dal compositore Joseph Kosma), avesse cessato improvvisamente di essere un poeta solo per il fatto che la sua poesia era diventata una scellerata canzone. Robe da Santa Inquisizione. E questo vale anche per tante poesie di Rimbaud, di Apollinaire, di Queneau, di Valery, musicate nel tempo da altri e cantate per le vie e nei bistrot di Parigi. Dobbiamo quindi lottare ancora per dare dignità a questa forma antica di letteratura, infatti i nostri grandi poeti come L'Alighieri e il Petrarca scrissero entrambi dei Canzonieri, Leopardi dedicò una bellissima edizione critica a quello di Petrarca. 

Massimo Bubola

Ballata senza nome

Frassinelli, 2017, 181 p.

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Antonella Sbriccoli