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Svizzera, maxi-stangata da 80mila euro: la protesta pro-Palestina era senza permessi

Svizzera, maxi-stangata da 80mila euro: la protesta pro-Palestina era senza permessi

Dagli 80 mila franchi per la protesta pro-Palestina ai costi imputati alla Flotilla: la Svizzera ribadisce che chi agisce contro divieti e avvisi ufficiali deve sostenere gli oneri che ne derivano, senza trasferirli alla collettività.

La fattura da 80.000 euro recapitata all’organizzatore della manifestazione pro-Palestina non autorizzata del 1° novembre 2025 a Sion non è un atto punitivo, ma una conseguenza logica di un principio elementare: chi decide di ignorare le regole e obbliga lo Stato a mobilitare mezzi straordinari deve sostenere i costi che genera. In questo caso, la protesta ha richiesto l’impiego di circa 80 agenti per quattro ore, con un conteggio ufficiale di 250 euro l’ora per ciascun operatore. La somma risultante, 80.000 euro è stata comunicata all’organizzatore la scorsa settimana.

La manifestazione, ricordiamolo, era già stata vietata due volte. Gli organizzatori hanno scelto comunque di proseguire, consapevoli dei potenziali rischi per l’ordine pubblico. È quindi difficile sostenere che il Cantone Vallese sia ricorso ad arbitrii: si è limitato ad applicare una normativa che tutela non solo le istituzioni, ma anche la cittadinanza, che non può essere chiamata a finanziare interventi resi necessari da decisioni unilaterali e deliberatamente in contrasto con la legge.Il Consigliere di Stato Stéphane Ganzer (PLR), responsabile del dossier, lo ha ricordato senza mezzi termini: «Una manifestazione vietata resta vietata. Se la si organizza comunque, si risponde delle conseguenze». Non si tratta di un orientamento politico, ma di un pilastro di buona amministrazione: il principio che impedisce di socializzare i costi di comportamenti irresponsabili.

Non sorprende, quindi, che il Cantone Vallese abbia ribadito che le spese devono ricadere su chi ha scelto di procedere nonostante i divieti. L’argomentazione degli organizzatori, secondo cui la fattura sarebbe «politicamente motivata», appare debole: il dispositivo di sicurezza non era opzionale e non è stato dispiegato per ragioni ideologiche, ma per garantire la sicurezza di manifestanti, residenti e forze dell’ordine.

Il ricorso annunciato da Gaël Ribordy e la contestazione del divieto potranno seguire il loro iter giudiziario, ma la sostanza resta: evitare i divieti avrebbe semplicemente evitato anche i costi. Presentare la fattura come una forma di repressione significa ignorare un fatto: in democrazia, la libertà di manifestare è garantita, ma presuppone regole, coordinamento con le autorità e rispetto dei vincoli stabiliti per ragioni di sicurezza. Qui nessuna di queste condizioni è stata soddisfatta.

La decisione del Vallese non è isolata. Un precedente significativo è quello dei membri svizzeri della Freedom Flotilla, ai quali erano stati addebitati i costi di rimpatrio e gestione consolare dopo il fermo nelle acque dirette a Gaza. Anche in quel caso, la Confederazione aveva ribadito un principio identico: quando un cittadino decide di intraprendere un’azione volontariamente contraria alle raccomandazioni ufficiali e tale azione genera costi straordinari, lo Stato può – e deve – trasferire a chi li ha provocati l’onere finanziario. Le contestazioni espresse all’epoca non modificarono il quadro giuridico: il principio di responsabilità individuale prevalse. E oggi, il Cantone Vallese si muove nella stessa direzione, riaffermando una linea coerente con la tradizione svizzera di tutela dell’interesse pubblico e limitazione degli oneri superflui a carico del contribuente. La controversia di Sion, dunque, non apre un precedente inquietante come alcuni sostengono: al contrario, ribadisce un equilibrio fondamentale. Le autorità non impediscono la protesta, ma pretendono che sia organizzata nel rispetto della legge. Se si decide di violarla, si paga ciò che quella violazione produce. È un principio semplice, trasparente e, soprattutto, giusto. L’Italia faccia lo stesso.

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