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Quando lo sport è un videogioco

Quando lo sport è un videogioco

Diventano campioni grazie alle abilità davanti a uno schermo. I professionisti del gaming sono i protagonisti di un settore in forte crescita. Anche in Italia, dove eccellenze come Qlash hanno inventato nuovi mestieri.


Per tentare di comprendere il meccanismo si può chiedere aiuto a un classico di Carlo Verdone: nel prologo del film di culto Troppo forte, il protagonista dà una lezione magistrale di flipper ai presenti in un bar. Il suo personaggio regala prodigi con una pallina, si guadagna ammirazione e stupore.

Su una scala diversa, decisamente più vasta, lo stesso avviene con gli e-sport, solo che al posto del flipper c’è uno schermo e i pulsanti sono quelli di una tastiera o di un controller. Il pubblico guarda estasiato le acrobazie e le sfide tra i campioni di turno, vuole imparare da loro, essere come loro. Li segue in presenza, paga un biglietto per un posto a tornei organizzati ad hoc, oppure si collega in streaming via internet, da qualsiasi angolo del mondo. Ingoia i messaggi degli sponsor trasmessi a intervalli regolari, tra un’azione e l’altra, un livello e quello successivo.

È quasi tutto come nello sport tradizionale, sono simili le logiche d’ingaggio e la capacità di coinvolgimento, però la competizione si universalizza, si fa virtuale. Vive dentro un videogioco di combattimento, avventura, basket, calcio, corse automobilistiche e generi assortiti. Su scala globale, a fine 2021, il mercato varrà 1,1 miliardi di dollari, in crescita del 15% rispetto a 12 mesi fa. Per il 2022 si parla già di un quasi raddoppio a confronto con il 2020 (sono stime della società di analisi Newzoo).

«Nel nostro Paese 475.000 persone seguono quotidianamente appuntamenti di e-sport e questo bacino di utenza si espande a circa 1.620.000 persone, se si considerano anche coloro che dichiarano di guardare un evento più volte a settimana» riassume a Panorama Marco Saletta, presidente di Iidea, l’associazione di categoria dell’industria dei videogiochi in Italia. Saletta traccia pure un identikit dei fan tricolore: «Principalmente uomini, età media di 27 anni, livello d’istruzione e reddito superiori alla media della popolazione. La loro presenza è considerevole nelle regioni meridionali e nelle isole, che coprono il 39% del totale nazionale». In generale, non è un’eccezione ma un trend: «Per il terzo anno consecutivo registriamo una crescita del numero di appassionati».

Tale bacino non si nutre d’improvvisazione: a fornire le occasioni di consumo al pubblico, a scoprire e coltivare una rosa di talenti, provvedono società specializzate che hanno intuito il potenziale di questo territorio in espansione. La più celebre in Italia, tra le prime in Europa, si chiama Qlash: conta campioni mondiali in vari videogame, ha una squadra di oltre 100 ragazzi che, assieme, raccolgono quasi 10 milioni di follower spalmati sui diversi social network.

«La nostra salsa segreta è collegare vari punti: partecipiamo ai tornei, creiamo contenuti, organizziamo eventi, durante i quali gli appassionati possono cimentarsi i loro beniamini» spiega Luca Pagano, ceo e co-fondatore di Qlash. Nel solito calcio, punto di riferimento imprescindibile per il business della competizione, è improbabile che un tifoso possa incrociare Cristiano Ronaldo sul campo. Con gli e-sport è possibile, anzi avviene di frequente: «Alla base, c’è un forte senso di vicinanza e immedesimazione, le star diventano raggiungibili, d’altronde sono il ragazzino di Voghera che ce l’ha fatta. Ed è lì a insegnare, a mostrare come seguire le sue orme. La barriera all’accesso è molto bassa». Messa da parte l’archetipica casalinga pavese, l’uomo qualunque oggi armeggia con un joystick.

Pagano smantella anche il pregiudizio semantico, la perplessità di definire sport un’abitudine statica di fronte a un display: «Innanzitutto gli e-sport possono essere assimilati a discipline ad alto coinvolgimento mentale, come gli scacchi. Inoltre, esigono capacità di resistenza che vanno allenate. Mantenere la concentrazione a lungo presume un lavoro aerobico. I nostri giocatori più abili sono malati di attività fisica».

È il caso di Riccardo Romiti detto Reynor, dal nome vagamente storpiato di un personaggio di StarCraft II, titolo a metà tra la strategia e l’avventura di cui il 19enne fiorentino è diventato campione del mondo. C’è riuscito lo scorso marzo, dopo aver sbaragliato avversari internazionali, soprattutto i temibili coreani, storici dominatori assoluti. «Mi piace tenermi in forma, ho una palestra in casa, quando mangio sano vedo che il cervello funziona meglio. Il segreto per vincere è abbinare logica e capacità di reazione» racconta Romiti mescolando orgoglio e timidezza.

Non vive incollato al computer, come sospetterebbero tanti genitori: «Anzi, la maggior parte del tempo lo passo da un’altra parte. Il pc lo uso per due o tre ore al giorno, per il resto sono fuori con gli amici o la mia ragazza». Agli antipodi del nerd. Ammette di guadagnare bene, «pur senza arrivare ai livelli dei calciatori» scherza, è sostenuto da sponsor importanti come Red Bull, smentisce la necessità di iniziare da giovanissimi per calcare le sue orme: «Io ho cominciato quando avevo otto anni, ma ci sono fenomeni che sono partiti a 21». Ecco, magari per noi boomer con i riflessi di un bradipo stordito rimane comunque qualche speranza in meno.

L’ultimo anno e mezzo, in generale, ha accelerato il decollo del fenomeno: «Il Covid-19 ha avuto un impatto sulle abitudini degli appassionati. Il lockdown ha portato i fan a dedicare più tempo a pc e console, nel 44% dei casi si è ampliata la fruizione online degli e-sport» conferma Saletta. Pagano li vede come un’inedita occasione di contatto: «Il videogame favorisce le dinamiche sociali tra i ragazzi, dà loro opportunità di entrare in connessione.

La stessa Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, prima del coronavirus metteva in guardia contro il consumo eccessivo di videogame, poi li ha promossi perché costruiscono un ponte con gli amici. Direi che la verità sta nel mezzo». E per quanto valga relativamente a livello statistico, anche il campioncino del mondo rafforza il fronte dell’ottimismo: «Su Starcraft» dice Romiti «puoi chattare. Se vuoi parlare con qualcuno lo chiami su Skype o su Discord. Giocare è uno strumento per fare amicizia».

La tendenza, pandemia a parte, pare inarrestabile non solo come evasione, ma in quanto opportunità economica. Il prossimo 5 e 6 ottobre Iidea organizzerà a Torino «Round One», l’evento di riferimento in Italia dedicato al business degli e-sport. Qlash, che ha già stretto una collaborazione con squadre come il Milan – segno che calcio tradizionale e virtuale si annusano per coesistere – sta per stringere partnership con importanti eccellenze del made in Italy, interessate a esplorare questo orizzonte.

In parallelo, la società accetta l’ingresso di nuovi finanziatori: fino a metà settembre terrà aperta una campagna di raccolta fondi (la formula è quella dell’equity crowdfunding) sulla piattaforma Seedrs.com. Da tempo, invece, ha avviato campagne di educazione nelle scuole, non per intercettare i prossimi talenti della console. Quelli Qlash li pesca altrove, durante gli eventi, tra i principianti che riescono a mettere in difficoltà i suoi campioni più scafati. «Nelle classi raccontiamo tutta la galassia dei mestieri creati dagli e-sport. Figure come social media manager, organizzatori e comunicatori, un’intera filiera di professioni che diventerà sempre più ampia e necessaria». In futuro, per trovare lavoro, basterà prendere un gioco sul serio.

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