Rocky Marciano è stato uno dei combattenti più importanti del pugilato. Con una storia che mescola voglia di rivincita sociale, talento atletico e generosità umana. Un libro lo racconta, alternandolo in modo originale con vicende di blues e jazz. Che sono la migliore colonna sonora alla boxe.
Prima che il figlio salisse sul ring, mamma Lena andava in chiesa ad accendere due candele a Maria Santissima del Sudore. Una per Rocco e la seconda per il suo avversario. «Non volevo che gli facesse troppo male». Temeva per l’altro. Il pargolo era quel Rocco Francis Marchegiano, con il padre partito da Ripa Teatina (Chieti, Abruzzo), che terremotò il mondo della boxe. «Non aveva gioco di gambe. Non aveva varietà di colpi. Non aveva l’arte della difesa. Non aveva stile, eleganza, classe, talento. Non aveva fantasia. Non aveva l’altezza né l’allungo. Non aveva neanche la pelle nera dei più grandi pesi massimi di quell’epoca. Ma aveva un pugno, uno solo, il destro, che per quanto annunciato, telefonato, previsto, prima o poi partiva e arrivava, prima o poi colpiva e segnava, ed era sempre devastante. Rocky lo portava largo e anche dall’alto verso il basso. Lo accompagnava con la spalla, con l’anca e con la gamba. Tram o treno, quel destro sapeva di sala macchine, profumava di olio, correva sulle rotaie».
Siamo già dentro un libro che esce il 25 agosto e sa di cazzotti e musica, per l’esattezza di blues in tutte le sue accezioni. Un libro coraggioso che ci accompagna sul ring accanto a Sylvester Stallone e ci aiuta a buttarlo giù dalle corde, a liberarci di un equivoco determinato dal nome diventato presto una saga. Rocky Balboa non c’entra. Questa è una stupenda, originale storia vera di sogni e cerotti, di punti dei giudici e di punti in faccia. Quindici riprese per disegnare il profilo di due miti, quello americano e quello di un emigrante capace di sfondare la cupola di cristallo a pugni: Rocky Marciano blues (casa editorice 66thand2nd). Scritto da Marco Pastonesi, giornalista dalla penna brillante, profondo conoscitore di sport nobili e virili (si può ancora scriverlo senza censura?) come il rugby e la boxe, diventa presto qualcosa di molto diverso da una biografia. È un viaggio dentro un uomo che somiglia alla metafora del maggiolino: «Con quelle piccole ali non potrebbe sollevare la massa corporea per volare. Ma lui non lo sa e vola».
È il destino di Rocky Marciano, rilettura americana di un nome troppo italiano per essere masticato dagli speaker nei palazzetti. È un viaggio fra le smorfie, le battute, i vizietti, i trionfi, le fragilità del figlio di emigranti nato esattamente 100 anni fa a Brockton, 360 chilometri a nord-est di New York e una quarantina a sud di Boston, che in otto anni (dal 1947 al 1955) distrusse i canoni della «noble art» a mazzate e li ricostruì a modo suo, aprendo quello sport alla modernità. Da allora la parola fighter ha un senso. Come spiega l’autore, «perché danzare per quattro, sei, dieci, quindici round con un avversario se lo puoi mettere ko alla prima ripresa? Perché attendere il verdetto dei giudici se puoi farti giustizia da solo? Perché attendere il conteggio dei punti dei cartellini se è sufficiente il conteggio fino a 10, anche meno, meglio meno, dell’arbitro? E su quello spiraglio e su quell’imprudenza dell’avversario, il destro, il destro da demolizione. Perché di tutte le voci del verbo boxare, a come avanzare attaccare assestare, b come ballare bastonare barcollare, c come combattere colpire centrare, Rocky Marciano ne usava soltanto una: d come demolire. Da Lee Epperson, il primo, ad Archie Moore, l’ultimo».
La forza del libro sta nel suo ritmo cinematografico. Bob De Niro in Toro Scatenato (ma quello era Jake LaMotta); Clint Eastwood sempre, soprattutto da grande regista di frontiera. Marciano entra dalla porta, si siede in tinello e chiede un caffè. È stupefacente girargli attorno, sapere tutto di lui, del parentado, degli spaghetti in tutte le salse, del profumo di pomodoro che si sparge nell’aria. E se anche avessimo voglia di cercare su Spotify una colonna sonora adeguata non avremmo bisogno di farlo. Fra le pagine danzano note blues, perché le 15 riprese vengono alternate con 12 storie di grandi musicisti, di uomini e donne che potrebbero accompagnare quelle sfide con i loro assoli immortali. Qualcosa di simile alla frase di George Foreman, detronizzato da Muhammad Alì nel match del secolo («Rumble in the Jungle») a Kinshasa: «La boxe è come il jazz. Meglio è, meno gente l’apprezza».
C’è Bessie Smith che finì per esibirsi alle feste casalinghe per 25 cent; c’è Robert Leroy Johnson, il «king del Delta», che soffiava storto (nell’armonica) e cantava selvaggio; c’è JB Lenoir che cantò Korea Blues e poi Vietnam blues prima di diventare lo spirito guida di Wim Wenders; c’è BB King che chiamò la sua chitarra Lucille dopo aver visto una rissa omerica per una certa donna che portava quel nome, «così mi sarei ricordato di non fare mai nulla di così stupido». Ci sono Thelonious Monk e Miles Davis. E c’è il concerto del favoloso Quintet a Toronto (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, Charles Mingus e Max Roach) per la prima e unica volta insieme. La stessa sera in cui, a Chicago, Rocky Marciano distruggeva Jesse Joe Walcott, in una delle notti del destino e dei numeri: 49 incontri, 49 vittorie, 43 ko, 43 demolizioni.
Un libro, tanti libri. Con il filo conduttore del figlio di Lena e Pierino (lui operaio in un calzaturificio) che comincia a fare a pugni a Swansea, in Galles, dove è di stanza con il contingente americano durante la Seconda guerra mondiale. C’è da regolare il conto con un militare australiano sbruffone, gli parte il destro e tutti capiscono che avrà un futuro sul ring. Uno dei combattimenti più epici e feroci è con Carmine Vingo. Vent’anni, origini italiane, radici della campagna napoletana, casa nel Bronx, fisico bestiale, fondamentali collaudati, record di 16 vittorie e una sconfitta.
Scrive Pastonesi: «Il primo round fu battaglia. Entrambi feriti, Vingo al tappeto, mascella fratturata, contato, nove secondi. Il secondo round fu guerra, e Vingo al tappeto, contato, nove secondi. Il terzo round fu di Vingo. Il quarto, il quinto, e il pubblico in piedi. L’arbitro registrò i punti, poi si diresse all’angolo di Vingo: «Te la senti di continuare?». Jackie Levine, il manager, rispose sì. E Whitey Bimstein, il secondo, rispose sì. Poi il sesto round, il montante sinistro di Rocky e il tappeto, definitivo, per Carmine. Più che svenuto, fulminato. Un’iniezione di caffeina, il trasporto all’ospedale». Su una barella, non in ambulanza perché non ce n’era una disponibile. Quindi a piedi, 20 minuti. Prosegue la lettura: «Il coma. L’estrema unzione. E il miracolo. Vingo ricominciò a vivere. Si svegliò, si alzò, fu dimesso. Lesioni cerebrali. No al pugilato, sì alla vita. C’era però da pagare il conto dell’ospedale: 4.000 dollari per le spese mediche. Ci pensò Rocky, devolvendo anche i 2.500 della sua borsa».
Ring significa anello, niente di più rotondo. Ma come dice Mike Tyson «è l’unica cosa quadrata che c’è nella boxe». Soprattutto in quella accompagnata dal blues, dai locali fumosi, dal whisky, dalle scommesse spinte dalla mafia, dal sottobosco di quegli anni sfavillanti e duri. Rocky è incontenibile, liquida leggende come Joe Louis e Archie Moore, grandi pugili generazionali come Ezzard Charles (nero e artistico). A giudizio di un’intelligenza artificiale qualche anno fa riuscì a superare addirittura Muhammad Alì. La vittoria su Joe Louis è la consacrazione. Lo sosteneva Norman Mailer (qui sono tutti pesi massimi): «Era il pugilato, racchiudeva nel suo silenzio la solitudine dei secoli». Ma Joe Louis era più del pugilato, come spiegò Martin Luther King: «Qualche tempo fa uno degli Stati Uniti del Sud adottò un nuovo tipo di esecuzione capitale. Il gas sostituì la forca. Le prime volte un microfono veniva installato nella stanza della morte in modo che gli esperti scientifici potessero udire le parole del prigioniero morente… La prima vittima fu un giovane nero. Come la compressa fu gettata nel contenitore e il gas cominciò a esalare, dal microfono uscirono queste parole: “Salvami, Joe Louis. Salvami, Joe Louis”».
Il mondo girava attorno a Demolition Man che, come abbiamo detto, non era esattamente un fiorettista. Più i critici ne contestavano lo stile, più lui sparava destri. Jimmy Cannon, commentatore: «Rocky Marciano stava alla boxe come una rosa in una discarica». Edward Fitzgerald, editore sportivo: «Rocky non ha mai voluto battere qualcuno con un’esibizione di abilità pugilistica. È un guerriero primitivo che insegue la sua preda finché non la cintura con il suo terribile destro demolitore». E Riccardo Signori, giornalista principe degli esperti di boxe italiani (autore di Diavoli e pugni): «Rocco ti piombava addosso come uno sciame di api. Lo vedevi arrivare e non sapevi come liberartene».
Come spesso accade il finale è triste, Rocky Marciano blues vira sulla malinconia. Il fighter si schianta con l’aeroplano a 46 anni a Newton nell’Iowa mentre sta andando a una comparsata a pagamento fatta di strette di mano e autografi. Uno dei più grandi pesi massimi di sempre non ha mai superato psicologicamente gli anni della povertà. Non sarebbe da pugile, non sarebbe da bluesman. Raccontava Jake LaMotta ricordando la miseria dell’infanzia: «La mia famiglia era così povera che ogni Natale mio padre usciva di casa e sparava qualche colpo di pistola in aria. Poi rientrava e diceva a noi ragazzi che Babbo Natale si era suicidato».
