Federer, Nadal e Djokovic. Nessuno più di loro ha saputo lasciare un’impronta indelebile nel tennis contemporaneo. In un libro, il saggista Carlo Magnani racconta la storia di questo sport e dei suoi campioni come metafora in cui poter rintracciare le problematiche culturali e sociali del presente.
«Se Dio è morto, allora tutto è permesso?». L’interrogativo radicale di Fëdor Dostoevskij si trasforma in una pallina gialla, va a rimbalzare su un rettangolo di terra rossa e somiglia a un passante incrociato. O a una smorzatona fetente di quelle che Carlos Alcaraz, ragno di Murcia, piazza agli avversari per attirarli a (o nella) rete. Se Dio è morto è permesso che in una semifinale dello Slam Jimmy Connors entri nella metà campo di Corrado Barazzutti e cancelli con il piedino un’impronta dubbia? È lecito che uno svedese «bimane» con una Donnay nera rivoluzioni in chiave socialdemocratica il gioco più reazionario del pianeta? Tutto può accadere, mentre un improbabile triumvirato (Roger Federer, Rafa Nadal e Nole Djokovic) si spartisce il potere con democratica sopportazione «in un contrasto non oppositivo ma cooperativo».
L’avrete intuito, siamo nel bosco del pensiero, dove la filosofia entra in campo e gioca senza scomodare i Monty Phyton. Dove anche Immanuel Kant e Martin Heidegger ci sorreggono per comprendere il tennis globale. Tutto ciò è l’essenza di un libro di fascino, fuori dagli schemi, trasversale come nessun altro: Il Genio, il Pirata, il Ribelle (Mimesis Edizioni), scritto da Carlo Magnani, ricercatore all’Università di Urbino, saggista di lungo corso e gran camminatore sui sentieri che – passando da casa Darwin e casa Keynes – conducono a Wimbledon. Il saggio è di fatto la storia dell’ultimo mezzo secolo di tennis raccontata facendo surf su volti appesi alle pareti della club house in legno scricchiolante (da Björn Borg a John McEnroe, da Adriano Panatta a Ilie Nastase, da Boris Becker a Pete Sampras, da Guga Kuerten ai martellatori Andy Roddick e Lleyton Hewitt) fino ad arrivare all’inizio del mondo globalizzato. Che ha una data e un luogo: 2 aprile 1999 a Neuchâtel, quando il Genio ritiratosi qualche mese fa sazio di trofei, appare al volgo battendo Davide Sanguinetti in Coppa Davis.
Scrive Magnani: «Il nostro capitano Paolo Bertolucci resta tanto impressionato dalle qualità della giovane speranza elvetica da coniare il termine «federerismo» per indicare l’embrione di nuovo credo monoteistico». Questo perché «Federer è un Sampras accresciuto, postmoderno e globale, capace di amplificare la già incredibile combinazione di potenza e perfezione estetica presente nell’americano». Ha così inizio la leggenda e gli spettatori di tutti i court del mondo attendono con ansia i «momenti Federer», vale a dire quei colpi difficili se non impossibili eseguiti da lui con naturale semplicità. Come ci ammonisce l’autore: «Semplicità e non facilità perché il tennis non è mai facile, può semmai essere semplice, cioè essenziale e comprensibile. Con lui il corpo del re si sdoppia: da un lato la persona fisica, cioè l’atleta con le sue circostanze biomeccaniche, dall’altro la persona tennistica, cioè l’aura spirituale che emana dalle gesta». Non accadeva dai tempi di Borg.
Il regno potrebbe essere assolato e assoluto come quello di Carlo V se non fosse per «lo nero periglio che vien dallo mare». Si passa agilmente da Dostoevskij a Brancaleone da Norcia che giunge finalmente ad Aurocastro, in Puglia, e si accorge del significato della sibillina frase contenuta nella cartapecora. Lì «lo nero periglio» è costituito dai predoni saraceni, nel campo di mattone tritato la minaccia che si affaccia dall’elemento d’acqua ha le sembianze di un giovane di Maiorca «con la bandana da pirata a fasciare la testa e la canottiera smanicata fluorescente. Rafael Nadal ha turbato un ordine che per molti doveva essere eterno».
Esteticamente chiassoso, picchiatore da cantiere; il marinaro iberico è l’opposto di Federer, ma ha il carattere del fighter e un cuore immenso. Nei 20 anni successivi tutti noi abbiamo appreso che non muore mai. E il suo «Vamos!» diventa un grido di lotta universale. Roger gli lascia il primato della terra, che lui sente come «una periferia del regno, scomoda, quasi fuori luogo, quindi è più indulgente verso le contrarietà, col pensiero già rivolto verso i prati inglesi». Nasce da qui la sovranità condivisa, qualcosa di inedito che riporta agli amorevoli sensi fra cane e gatto dentro lo stesso cortile, ma con ciotole separate. Spiega Magnani divertendosi: «Federer e Nadal non si elidono perché all’uno tocca la regalità spirituale, all’altro l’espressione della forza. Insieme costituiscono una sorta di federazione della potestas tennistica. Il modello è l’Unione europea, nessuno è davvero sovrano, manca un centro unificante. È la politica postmoderna guidata ai mercati: un noto marchio di abbigliamento sportivo mette sia l’uno che l’altro sotto contratto».
Nasce il neologismo «Fedal», il re dei gesti bianchi e quello dei gesti fluo. Tutto ciò sarebbe piaciuto allo scriba Gianni Clerici. L’equilibrio viene spezzato da una tempesta che arriva dall’Est (guarda un po’ la coincidenza): sul palco si materializza il terzo uomo. Mai ideale come Roger, mai concreto come Rafa, il belgradese Novak è il più moderno di tutti, è la dimostrazione materiale che l’«ascensore sociale» esiste ancora. Come ricorda Il Genio, il Pirata, il Ribelle, per farlo giocare, la famiglia deve ricorrere ai prestiti di uno strozzino. Lui si allena sotto le bombe della Nato e per 78 giorni dorme con mamma e papà in un rifugio antiaereo. Si ricorderà di tutto questo sui match point, diventa un soldato con la racchetta. C’è qualcosa di più postmoderno di tutto ciò? Nel secolo breve del tennis è arrivato il Ribelle, quello che rompe gli schemi e non si vaccina. Quello che per far rispettare i diritti individuali tira un cesto di squassanti aces addosso al conformismo collettivo. Il libro ci spiega perché: «Da piccolo, durante una corsa verso il rifugio antiaereo, vede partire da un caccia F-117 due missili che si conficcano in un ospedale facendolo esplodere». Non serve altro, Djokovic è Ernst Jünger, lo scrittore guerriero. Pensionato lo svizzero, al tramonto lo spagnolo, oggi dal serbo bisogna passare per ottenere i diritti di successione.
Lo sanno Alcaraz e Jannik Sinner, pronti a scrivere la nuova legge del più forte. Con un finale aperto e misterioso, tranne che nell’ultimo gesto della partita. Una stretta di mano.
