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Tutte le novità scoperte sulle balene

Tutte le novità scoperte sulle balene

Mentre questi giganti del mare sono sempre più in pericolo (e molti esemplari si spiaggiano), la scienza ne scopre il prezioso ruolo anti-inquinamento, le abitudini e la capacità di «parlare» con tanti dialetti. Proprio come noi.


Non è un’impresa senza speranza quella di avvistare una balena nei mari che circondano i luoghi di vacanza. Le baleniere di metà Ottocento, ai tempi di Herman Melville e del capolavoro Moby Dick, davano la caccia ai cetacei attraverso gli immensi oceani del pianeta, guidati da una grande competenza sulle correnti e le maree, le derive del cibo, i fondali e le stagioni sicure per la caccia. Queste conoscenze, oggi patrimonio di ricercatori e operatori di turismo ambientale, indicano l’area al largo della costa ligure, della Francia e della Corsica come luoghi ideali da dove avvistare balenottere, capodogli e delfini. È possibile ammirarli anche nel Mar Ionio dalle spiagge calabresi e pugliesi, mentre altrove i cetacei sono meno numerosi.

Fuori dai nostri mari, chi è in vacanza in Islanda ha un’alta probabilità di scorgere balene erompere dal mare con grandi salti, ed è irrinunciabile il «whale watching» dalla cittadina di Husavik. Tra l’altro l’Islanda, dopo un lungo braccio di ferro con l’Ue, ha sospeso la caccia alla balena, almeno fino al 31 agosto, avviandosi a una sospensione illimitata per il 2024. Altri luoghi dove capita spesso di avvistare una balena sono le isole Lofoten, a nord-est della Norvegia, dove il whale-watching più famoso parte da Andenes e permette di osservare capodogli come quelli descritti da Melville. Le isole Azzorre, dove vanno a nutrirsi molte specie di cetacei incluse le balene azzurre che arrivano ai 33 metri di lunghezza; le isole Madeira, in Portogallo, dove gite in catamarano da Funchal consentono di vedere vari cetacei; la baia di Monterey in California, con le sue balene grigie; la città di Kaikoura in Nuova Zelanda con i numerosi capodogli e delfini che vanno a nutrirsi di calamari, polpi e razze; e poi sono famosi i whale-watching da Tadoussac in Canada, Betty’s Bay e Kleimond in Sudafrica. Anche partendo da Rasu in Giappone, è possibile vederle, ma sapendo che quello Stato si ostina a cacciarle, così come la Norvegia.

Molti pensano che la maggior parte delle uccisioni sia avvenuta ai tempi di Melville, nel 19° secolo, quando le lampade della città erano illuminate a base di olio di balena. In realtà, secondo un articolo del naturalista Daniel Cressey su Nature, il record è stato nel 21°secolo, con un numero stimato di cetacei uccisi di tre milioni, contro i 300 mila del secolo precedente. Infatti, le navi a combustibile fossile sono in grado di raggiungere specie grandi e veloci come le balenottere azzurre e ucciderle a distanza con arpioni esplosivi. Sono tutte morti servite ad alimentare l’industria di prodotti quali fertilizzanti, lubrificanti, lucidi per scarpe, margarina, gomme da masticare e nastri per macchine da scrivere. Così, per fare un esempio, le balenottere azzurre antartiche sono passate dai 300 mila esemplari del 18° secolo ai 350 di qualche decennio fa, meno dello 0,1 per cento della popolazione iniziale.

Oggi assistiamo al fenomeno delle balene spiaggiate; lo scorso luglio, 100 esemplari di globicefali finiti lungo la costa dell’Australia occidentale sono stati soppressi per l’impossibilità di salvarli. Nel settembre 2022 ne erano morte 200 in Tasmania e un mese dopo oltre 500 in Nuova Zelanda, per le stesse ragioni. Secondo gli esperti, a causare spiaggiamenti, anche in Italia (come a Peschici, in Puglia) sono i segnali acustici delle navi che ispezionano i fondali alla ricerca di petrolio, il traffico marittimo e l’inquinamento chimico, microplastiche incluse.

Il fatto positivo è che nell’ultima decade si sono succedute molte scoperte che svelano quanto prezioso sia questo animale, non solo per l’ambiente ma anche per il patrimonio delle nostre conoscenze sul linguaggio, l’etologia e l’evoluzione. Sappiamo adesso che se un albero assorbe circa 21 kg di CO2 in un anno, una balena quando muore ne porta con sé, nel fondo del mare, almeno 33 tonnellate. A questo numero bisogna aggiungere tutta l’anidride carbonica che il plancton, costituito da microalghe e altri piccoli organismi sospesi o a galla, assorbe grazie ai cetacei. Infatti, molte specie si spingono in profondità a cercare cibo, dove la luce non arriva.

Quando risalgono rilasciano feci che fertilizzano con il loro contenuto di ferro e azoto il fitoplancton, il quale non potrebbe crescere senza quei minerali, assenti nella zona in cui avviene la fotosintesi.

L’altro aspetto sorprendente dei cetacei è la loro capacità di comunicare da una parte e di eco-localizzare dall’altra, cioè usare suoni per rilevare la posizione di tutto ciò che sta attorno a loro. Le nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale ai sempre più sofisticati robot subacquei, ci stanno aiutando a tal punto a decifrare il linguaggio di balene e delfini che, in un libro uscito per Il Saggiatore, Come parlare il balanese. Il futuro della comunicazione animale, Tom Mustill, biologo e regista di documentari, afferma che in un futuro vicino potremo comunicare con questi animali parlando il loro linguaggio. «Con l’evoluzione della tecnologia un’idea del genere potrebbe diventare realtà» afferma Mustill. Capodogli, orche e delfini emettono i cosiddetti click o fischi attraverso lo «sfiatatoio». «L’idea che i cetacei avessero una voce aveva già sfiorato i balenieri, tanto che il capitano William H. Kelley, dell’Eliza, nel 1890 raccontò come, appoggiato l’orecchio alla cima che andava da una balena franca arpionata fino alla barca, avesse sentito un gemito sordo, come quello di una persona in preda al dolore» racconta Mustill. «I sensi della balena sono diversi da quelli umani. Gusto e olfatto sono quasi inesistenti e la vista è assai peggiore della nostra. Per i capodogli e molti altri cetacei sta tutto nei suoni, si orientano tramite l’udito».

La cosa interessante è che questi suoni si combinano in una precisa sintassi per formare unità più complesse, come le frasi nel linguaggio umano. Ed esistono diversi dialetti del «balenese», come nel caso dei capodogli. «In ognuno dei bacini oceanici ne vivono migliaia, che però non “parlano” tutti allo stesso modo. I ricercatori ne hanno individuate diverse popolazioni, ognuna ha il proprio “dialetto” di sequenze di clic. La cosa che mi ha molto colpito è che due balene appartenenti a due clan vocali diversi non si limitano a parlare in maniera differente, ma hanno proprio un altro modo di vivere: ogni clan ha le sue tecniche di caccia, le sue prede di elezione, il suo modo di badare ai cuccioli e di trasmettere le proprie tradizioni alle nuove generazioni». Proprio come nelle culture umane.

Qualche giorno fa, sempre Nature ha dato notizia della scoperta della colossale «balena del Perù», una specie vissuta 39 milioni di anni fa, antenata delle attuali balene, chiamata Perucetus colossus, che sembrerebbe detenere il primato dell’animale più pesante mai esistito. Hanno calcolato che l’antico gigante pesava tra le 85 e 340 tonnellate quando le più grandi balenottere azzurre stanno all’interno di tale intervallo, arrivando a circa 180 tonnellate. Di contro, se il corpo di Perucetus colossus raggiungeva i 20 metri, le balenottere azzurre possono essere più lunghe, alcune superano i 30 metri. Mustill, nel corso delle sue riprese, ha fatto l’esperienza unica di essere investito da una megattera emersa interamente dall’oceano con un salto. «Una balena in acqua è come un iceberg: se ne vede solo una parte ed è difficile farsi un’idea delle sue dimensioni. Sembrava che un intero edificio fosse uscito di colpo dall’oceano».

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