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Chi ricerca… non trova fondi

Chi ricerca… non trova fondi

Le risorse stanziate dal governo sono in crescita, ma il problema è che l’85% dei soldi finisce a tre enti vigilati dal ministero dell’Università. Mentre agli altri arrivano le briciole. Serve un coordinamento.


In Italia la ricerca è a pezzi. Nel vero senso della parola. Sì, perché il finanziamento segue percorsi diversi per varie categorie di enti che si dedicano appunto al lavoro di ricerca. Un guazzabuglio in cui i benefici toccano ad alcuni, invece ad altri vengono negati. Un esempio? L’ultima legge di Bilancio ha previsto un incremento degli stanziamenti, nell’ordine dei 100 milioni di euro. Bene.

Poi un capitolo specifico prevede che dal 2022 «40 milioni di euro dovranno essere utilizzati per il passaggio di livello superiore dei ricercatori e tecnologi inquadrati al terzo livello (livello base)», ma «tale passaggio è riservato solo agli enti di ricerca vigilati dal ministero dell’Università e della Ricerca, escludendo altri che pur contribuiscono in modo decisivo alla diffusione e al prestigio della ricerca italiana» denuncia un’interrogazione presentata dal deputato del Pd, Andrea De Maria.

Cosa significa? Che per esempio il Cnr e l’Agenzia spaziale italiana (Asi) potranno accedere a queste risorse. Per altri, come il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) e l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea), non ci sarà questo fondo a disposizione.

La disparità è infatti a monte del sistema. Bisogna andare con ordine per capire. C’è la platea che rientra nel Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca (Foe), e si tratta di 12 enti vigilati dal ministero dell’Università, oggi guidato da Maria Cristina Messa. Gli stanziamenti complessivi, rispetto al passato, sono effettivamente in crescita di poche decine di milioni: poco meno di un miliardo e 800 milioni. Tra questi la parte del leone spetta appunto al Cnr che ottiene 665 milioni di euro. Altri 505, invece, vanno all’Asi, mentre 305 finiscono all’Istituzione nazionale di fisica nucleare (Infn).

In pratica in tre si dividono oltre l’85% delle risorse, per gli altri nove restano poche decine di migliaia di euro. Ma fosse solo quello. C’è un altro inghippo. Perché in questo caso si parla solo degli enti vigilati dal Mur (ministero Università e Ricerca). C’è un’altra rete, invece, che è legata ai singoli dicasteri. Gli esempi sono anche di un certo prestigio. Basti pensare all’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, che è sotto il controllo del ministero delle Politiche agricole.

Ma lo stesso discorso vale per l’Istituto superiore di Sanità (Iss), che ottiene le risorse dal ministero della Salute, o per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), oltre al Crea e all’Enea. Tutti enti di grande prestigio, che dipendendo da singoli ministeri, non rientrano nei fondi ad hoc. Così si generano disparità, come quella dell’ultima manovra.

«Peraltro, molti enti non vigilati dal Mur hanno affrontato questi anni di emergenza pandemica con particolare aggravio di competenze e riduzione di disponibilità finanziarie e di personale» dice a Panorama De Maria. Una tesi rilanciata da Elvira Serafini, segretario generale dello Snals-Confsal: «L’errore maggiore presente nell’impianto della legge di bilancio è stato quello di spezzare in due il sistema, finanziando solo gli enti vigilati dal ministero dell’Università e della Ricerca e dal ministero dell’Istruzione. Lasciando all’asciutto tutti gli enti vigilati dagli altri ministeri».

Il quadro è tipicamente italiano: complicare qualcosa che potrebbe essere molto semplice. «Il dicastero dell’Università e della Ricerca di fatto non può esercitare il ruolo di coordinamento sugli enti di ricerca vigilati da altri organi», osserva ancora Serafini. La soluzione? «Sosteniamo da sempre la necessità di un organismo, magari un coordinamento sovraministeriale, che assuma questa “governance” unitaria».

E in tutto questo c’è un terzo troncone, ancora più bistrattato rispetto agli altri: quello della ricerca sanitaria. Si tratta degli Irccs e gli Ipz, sigle criptiche e respingenti, che pure celano il gotha della sanità italiana. Si parla infatti dello Spallanzani di Roma e dell’Istituto Nazionale Tumori di Napoli, giusto per citare due nomi. Nel comparto c’è una cronica precarietà e un livello salariale basso, intorno ai 1.500 euro mensili, talvolta la metà rispetto alla situazione all’estero. Una condizione che ha spinto migliaia di giovani ricercatori a cercare fortuna altrove.

Da qualche anno è partito il meccanismo della cosiddetta piramide del ricercatore, voluta dall’allora ministra Beatrice Lorenzin. Ma la macchina sembra incepparsi. «La quota di “piramidati” che ha già abbandonato gli Istituti è mediamente del 22%, con picchi in alcuni istituti del 50%» riferiscono dall’Associazione ricercatori in sanità (Arsi). E di fronte alle richieste di cambiamento, il governo ha sempre risposto picche.

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