- Le strane vie della pandemia nel mondo
- Messico e Brasile: propaganda e dati veri nel record dei contagi
In certi Paesi i vaccini abbondano ma i contagi crescono, in altri non ci si immunizza eppure la diffusione del virus è sotto controllo. Solo due delle apparenti contraddizioni in corso sul pianeta. Che dovrebbero far riflettere anche noi.
Tanti pesi e tante misure. A più di un anno dall’inizio della pandemia, la mappa mondiale del Covid vede mille sfumature di tassi di contagio, numero di decessi, avanzamenti nella vaccinazione. Frutto di fatalità ma anche conseguenza delle diverse azioni dei governi davanti allo stesso problema. Con risultati spesso contrastanti e apparentemente illogici. Come nel caso del Cile, un vero campione delle vaccinazioni, con prime dosi somministrate al 59% della popolazione (18 milioni di abitanti), più di Stati Uniti e Inghilterra, oggi aggredito da una nuova ondata di contagi.
Nel Paese sudamericano la campagna per assicurarsi vaccini è partita con efficienza nell’aprile 2020. Il governo di Santiago ha contrattato il 215% delle dosi necessarie. 60 milioni di Sinovac, 10 milioni di Pfizer, 4 milioni di Johnson&Johnson e altrettanti di AstraZeneca. L’idea era ed è di ottenere un grande portafoglio di vaccini dal maggior numero di fornitori possibile, ma alla fine la stragrande maggioranza (il 93%) è made in China. Soprattutto CoronaVac (vaccino della Sinovac), attualmente sotto sperimentazione, iniziato a usare prima ancora che Pechino concedesse semaforo verde per il proprio Paese. Nei giorni scorsi è stato anche approvato l’uso di emergenza del CanSino nonostante qualcuno dell’Istituto cileno di sanità abbia contestato la mancanza di informazioni di laboratorio e altre oscurità.
Dunque tantissimi vaccini, eppure – dicevamo – è boom di contagi: circa 7.300 la media mobile dell’ultima settimana, che conta anche più di 100 morti giornalieri. La spiegazione, secondo alcuni, sta nelle varianti inglese e brasiliana, entrate da confini lasciati apertissimi. Secondo altri, invece, i fatti cileni confermano quanto uscito sulla rivista scientifica The Lancet: la vaccinazione senza lockdown non può fermare da sola la pandemia.
A differenza di Israele, dove il Paese è rimasto chiuso durante le vaccinazioni e oggi si parla di raggiunta immunità di gregge, a Santiago la massa di fiale ottenute ha fatto rilassare controlli e regole. Inoltre, pochi giorni fa l’Università del Cile ha pubblicato uno studio che dimostra come la prima dose da sola coprirebbe con un’efficacia del 3% nei 28 giorni fino alla seconda iniezione, dopo la quale si sale al 27,7% e dopo altre due settimane al 56,5%. Insomma ha dimostrato che il vaccino Sinovac, su cui ha puntato il governo (ma che è usato anche da altri Paesi per elargizione del Dragone), funziona pochissimo e alla prova dei fatti l’hanno ammesso anche le autorità di Pechino («È poco efficace» ha detto Gao Fu, direttore dei Centri per il controllo delle malattie in Cina). Ora gli ospedali sono al collasso, e l’efficiente Paese sudamericano che aveva cantato vittoria troppo presto sta conoscendo le chiusure più dure dall’inizio della pandemia, con conseguenze economiche devastanti.
«Le varianti del virus hanno grande rilevanza nell’aumento dei contagi» commenta Cesare Cislaghi, economista ed epidemiologo non clinico, già presidente dell’Associazione italiana epidemiologia e tra gli autori del blog Scienza in rete, «ma il tema dei vaccini non accertati è importante e tocca anche noi. Quanti si mettono in viaggio per farsi inoculare un vaccino purchessia. In Serbia, o a Dubai o non so dove… Sull’efficacia di vaccini non approvati da noi è lecito nutrire dubbi. Nonostante i ritardi burocratici, la prudenza di Ema e Aifa è sacrosanta».
In Marocco si trova una storia simile con conseguenze differenti. Anche lì sui vaccini ci si è mossi in anticipo con un’efficienza tale che mentre l’Europa veniva bacchettata dall’Oms per l’esasperante lentezza, gli ha meritato l’appellativo di «Paese miracolo». Ha ricevuto 8,5 milioni di dosi AstraZeneca made in India, un milione di Sputnik e 1,2 di AstraZeneca in quota Covax (il «serbatoio» di vaccini destinati ai Paesi poveri). Il grosso anche qui è cinese: la Sinopharm arriverà a 12,5 milioni entro maggio. La campagna è iniziata il 28 gennaio e si contano quasi 4 milioni e mezzo di vaccinati su 36 milioni di abitanti, quasi tutti con entrambe le dosi ricevute. Ma qui, a differenza del Cile, pare si stia riuscendo a mantenere sotto controllo la curva dei nuovi contagi che ufficialmente toccava i 5.200 nella media mobile di novembre e oggi varia tra 500 e 600. Il Paese mantiene lo stato di emergenza con rilevanti aiuti economici di Stato. Il coprifuoco è stato esteso a tutto il periodo del Ramadan.
Dunque in Marocco non starebbe accadendo quanto si è visto in Cile? «Il confronto tra Paesi è molto difficile e non corretto dal punto di vista metodologico perché le variabili in gioco sono tante» commenta Francesco Forastiere, direttore della rivista scientifica Epidemiologia e prevenzione (dell’Associazione italiana di epidemiologia) e visiting professor all’Imperial College di Londra. «Si dovrebbe considerare quanto tempo è necessario alla prima dose per dimostrarsi efficace, se quel Paese è in espansione o in contrazione epidemica, e quale frazione di popolazione più suscettibile è stata vaccinata».
Una questione, quella della distinzione tra soggetti più o meno predisposti a contrarre e trasmettere il Covid, che riguarda da vicino anche l’Italia. «Al 50% delle vaccinazioni non corrisponde altrettanta popolazione suscettibile. Potremmo aver vaccinato anziani che, per abitudini di vita o predisposizione a contrastare il virus, più difficilmente si sarebbero infettati, mentre gli altri magari non li abbiamo ancora raggiunti. In Italia sarebbero serviti sistemi per informare sulla tipologia dei vaccinati e seguirli nel tempo, come hanno fatto per esempio Israele e Scozia».
È un fatto che i Paesi capaci di utilizzare la tecnologia, insieme ad altri metodi di contenimento del contagio, hanno avuto risultati ottimi. Al punto da non volersi accanire nella lotta al vaccino. È il caso di Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. La prima, 10 milioni di abitanti in meno dell’Italia, un anno fa aveva lo stesso nostro numero di contagi (circa 1.700) e oggi ne conta 107.000 contro i 3 milioni e 700.000 nostri. Quello che ha fatto è stato esemplare, a partire dalla K-Quarantine: una combinazione di test a tappeto e tracciamento dei contatti attraverso segnale telefonico e carte di credito, isolamento in aree disposte dal governo, multe salate ai trasgressori.
Inoltre al primo sospetto ha chiuso le frontiere a chiunque (cominciando dalla Cina), ma ha salvaguardato le attività produttive, rimaste per la maggior parte aperte grazie allo «scudo» offerto dal sistema di monitoraggio avanzato. La sua curva si è appiattita ed è rimasta bassa al punto, dicevamo, da essere l’ultima delle nazioni industrializzate a cominciare la campagna di vaccinazione: fine febbraio 2021, anche se adesso che cresce il timore per una quarta ondata le polemiche per il ritardo non mancano. Solo il 2% della popolazione ha ricevuto una dose e lo 0,1 ha fatto entrambe.
Anche Australia e Nuova Zelanda hanno preferito aspettare. Pochissimi i casi (i decessi totali sono rispettivamente 909 e 26, ma tutti nel 2020: sono a zero da mesi), al punto che dal 19 aprile tra i due Paesi si creerà una bolla Covid-free con voli aerei senza obbligo di quarantena. Anche per loro il sistema di monitoraggio e controllo ha funzionato: chiusura ferrea dei confini, controlli a tappeto degli abitanti e quarantena in hotel a spese dello Stato (l’Australia ha «ospitato» 211.000 persone). I trasgressori sono finiti in prigione a decine. Ma con i vaccini si sta correndo ai ripari e sul governo di Canberra è bufera sui ritardi: è stato somministrato l’85% in meno di quanto previsto e in totale è stata inoculato poco più del 5% della popolazione. In Nuova Zelanda ancora meno: 1,4% con una dose, anche se qui la situazione è talmente sotto controllo che di ogni singolo contagio si studia il genoma.
«In quei Paesi sono molto attenti a individuare la presenza delle possibili varianti, e alla fine ne sono stati colpiti meno di noi» dice ancora Forastiere. «Hanno usato la tecnologia e l’hanno fatto in modo efficace. Senz’altro più efficace dell’Italia, visto che qui né i sistemi informativi creati né l’Istituto superiore di sanità hanno mai fornito dati sulle circostanze del contagio. Mancanze che hanno fatto sì che navigassimo a vista».
Altro caso particolare è quello del Giappone, dove inizialmente si è scelto di non vaccinare anche se in gennaio si erano superati i 7.000 nuovi contagi al giorno e oggi sono quasi 5.500, in crescita (i morti sono 9.450, circa 50 al giorno). Eppure l’immunizzazione per i suoi 126 milioni di abitanti è partita soltanto a metà febbraio e a oggi ha coperto lo 0,9% della popolazione con la prima dose. Il governo giapponese avrebbe deliberatamente scelto di ritardare, così riporta il canale di informazione Cnn, perché la popolazione è fortemente recalcitrante di fronte ai vaccini dopo decenni di scandali sanitari. Nel frattempo, guardare alle misure di emergenza prese nelle prefetture dove sono scoppiati i focolai – come quella di Miyagi – la dice lunga sul lockdown alla giapponese: ristoranti e centri sportivi aperti fino alle 20, locali fino alle 21, allo stadio si va ma il bar interno chiude alle 20. Tanti pesi e tante misure.
Messico e Brasile: propaganda e dati veri nel record dei contagi

L’America Latina è con l’Europa e gli Stati Uniti il continente più colpito dal Covid-19. Quasi un terzo di tutte le vittime mondiali da coronavirus, circa tre milioni, si sono infatti registrate in quest’area del mondo. Solo il Brasile ha già pianto oltre 360.000 morti, 65.000 dei quali a marzo (il mese più duro da inizio pandemia ma aprile sarà anche peggio), mentre il Messico ha superato i 205.000 decessi. Queste le cifre ufficiali a oggi 15 aprile.
Le due nazioni sommano dunque da sole ben oltre mezzo milione di vittime, ma il numero nel Paese della tequila è in realtà ben maggiore. Un rapporto del governo messicano, reso noto il 27 marzo scorso e ignorato da quasi tutti i media, rivela infatti una sottostima dei morti da parte del governo di Miguel Ángel López Obrador, AMLO come viene familiarmente chiamato.
Decine di migliaia di messicani, quasi tutti appartenenti alle classi medio-basse, sono deceduti in casa tra l’inizio della pandemia e il 13 febbraio scorso. Il motivo di questa valutazione non corretta, per cui il numero reale delle vittime da Covid-19 va quasi raddoppiato, è che il Messico ha eseguito pochissimi test durante la prima ondata 2020 e, con gli ospedali al collasso, molti sono morti a casa e, dunque, non sono stati registrati dal sistema sanitario nazionale perché «non rilevati».
L’unico modo per avere un quadro chiaro è dunque «esaminare le “morti in eccesso” e rivedere i certificati di decesso» ha spiegato a fine marzo Ruy López Ridaura, direttore generale del Centro statale dei programmi di prevenzione e controllo delle malattie e supervisore del rapporto in questione. Dall’inizio della pandemia al 13 febbraio scorso, in Messico è stato segnalato un eccesso di mortalità di 417.002 persone, di cui il 70,5% deceduta a causa del Covid-19: 95,150 in più rispetto a quelle ufficiali» ha dettagliato lo stesso López Ridaura.
Il nuovo conteggio diramato dalle stesse autorità sanitarie messicane fa salire dunque i decessi, a oggi, a 305.000. Una cifra che sfiora in valore assoluto il tragico bilancio del Brasile, pur avendo il Messico 128 milioni di abitanti contro i 211 milioni della nazione sudamericana. In percentuale rispetto alla popolazione, poi, la mortalità da Covid-19 sotto il Rio Bravo è davvero impressionante, collocando il Messico al terzo posto al mondo (in testa c’è la Repubblica Ceca, seguita dall’Ungheria) con 2.310 morti per milione di abitanti, contro i 1.598 del Brasile.
Nonostante questa mattanza evidenziata dal boom di decessi, impressiona che il Messico abbia trovato appena due milioni e 280.000 positivi (contro gli oltre 13 milioni del Brasile), molti di meno persino dell’Argentina, che conta però un terzo della sua popolazione. Il motivo è il bassissimo numero dei tamponi effettuati nel Paese nordamericano.
Anche sul fronte dei vaccini, a guardare i dati, il Brasile fa meglio del Messico. In primis perché ha una produzione interna in espansione, che a marzo ha garantito 30 milioni di dosi di fiale grazie a due storici istituti all’avanguardia sul fronte vaccinale e della ricerca: il FioCruz di Rio de Janeiro, che da aprile fornisce cinque milioni di dosi dell’anglo-svedese AstraZeneca la settimana; e l’istituto Butantan di San Paolo, che oggi produce il vaccino cinese Coronavac/Sinovac a un ritmo di un milione di dosi al giorno.
Inoltre, grazie alla sua esperienza nella gestione delle pandemie, il Sistema statale verdeoro, SUS, è in grado di praticare addirittura tre milioni di iniezioni in un giorno, anche se a oggi vengono inoculate una media di un milione di persone ogni 24 ore. A garantirlo è Gonzalo Vecina Neto, professore presso la Facoltà di Sanità pubblica dell’Università di San Paolo (Usp) nonché ex presidente e fondatore dell’Anvisa, l’agenzia che concede le autorizzazioni dei farmaci in Brasile.
È dunque probabile che, grazie alla produzione di FioCruz e Butantan, entro settembre il Brasile possa raggiungere quel 60-70% di popolazione vaccinata, come auspicato dall’Oms per raggiungere l’agognata immunità di gregge. Il Messico, invece, sul proprio territorio non ha nessuna produzione dei vaccini che sta usando per inoculare la sua popolazione, ovvero AstraZeneca e Sputnik.
Sul fronte degli acquisti, inoltre, il Brasile è lo Stato che in tutta l’America Latina ha acquistato più vaccini, 561 milioni di dosi in totale, pari a una capacità di immunizzazione del 141% del totale della sua popolazione secondo i dati dell’Americas Society/Council of the Americas. Nello specifico si tratta di 210 milioni di dosi di AstraZeneca, 100 della statunitense Pfizer, altrettante di Coronavac/Sinovac, 80 del russo Sputnik V, 38 di Johnson&Johnson, 20 dell’indiano Covishield e 13 milioni di Moderna.
Il Messico ha invece acquistato 310 milioni di dosi, in grado di vaccinare il 129 per cento della sua popolazione, anche se la maggior parte delle fiale non è ancora stata consegnata (in questo condivide un problema a livello globale). Anche sul fronte delle inoculazioni la differenza è notevole. Il Brasile ha già vaccinato con almeno una dose oltre il 12% della sua popolazione, oltre 25 milioni di persone a oggi – in valore assoluto la quinta nazione che ha più immunizzato al mondo – mentre il Messico è fermo a meno del 10%, con appena 12 milioni di persone inoculate.
Fatto salvo che in entrambi i Paesi la situazione è drammatica, se questi sono i numeri, perché i media italiani e internazionali parlano da settimane del disastro del Brasile nell’affrontare la pandemia di coronavirus ma tacciono del Messico? La risposta, a voler essere maligni, è che il Brasile ha un presidente di destra come Jair Bolsonaro, contrario a lockdown e coprifuoco, tiepido sui vaccini e favorevole alle cure a base di clorochina, invermectina (un vermifugo) e vitamina D.
Il Messico, invece, è governato da un esponente della sinistra mondialista qual è AMLO, disponibile con i media a tal punto da concedere ogni giorno conferenze stampa noiosissime dove, a parole, si dice favorevole alle chiusure e all’«approccio scientifico» (ovvero lockdown e vaccini) ma poi, numeri alla mano, non passa dalla teoria alla pratica.
In Messico, infine, sul Covid-19 si è arrivati a una sorta di «unità nazionale», e López Obrador gode di una stampa favorevole nonostante sino a pochi mesi fa abbracciasse tutti, mamma del narcotrafficante Chapo Guzmán compresa. In Brasile, invece, una posizione condivisa da tutte le forze sulla pandemia è lontana anni luce, con un Bolsonaro messo in croce da gran parte dei media verde-oro che lo definiscono sempre più spesso «un genocida».
Paolo Manzo