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Il futuro della plastica è fatto di catrame

Il futuro della plastica è fatto di catrame

L’autore del libro La guerra della plastica cerca di capire come affrontare il problema dell’inquinamento da polimeri, ormai diventato un’emergenza planetaria. Le ultime notizie dal fronte arrivano dalla Cina e dalla Svizzera: il 19 gennaio Pechino ha pubblicato un piano per vietare o ridurre significativamente la produzione e l’uso di prodotti di plastica nei prossimi cinque anni.




La seconda economia mondiale vieterà o limiterà gradualmente la produzione, la vendita e l’uso di alcune materie plastiche promuovendo al contempo le loro alternative degradabili e riciclabili.

Lo stesso giorno la Nestlé, una delle più grandi multinazionali al mondo, ha annunciato che investirà fino a 2 miliardi di franchi svizzeri per passare alla plastica riciclata per uso alimentare e per accelerare lo sviluppo di soluzioni innovative per imballaggi sostenibili. La società aveva già preso l’impegno nel 2018 di rendere riciclabile o riutilizzabile il 100 per cento dei suoi imballaggi entro il 2025. Adesso si impegna anche a ridurre di un terzo l’utilizzo di plastica vergine, lavorando con altri attori per far progredire l’economia circolare e per contribuire a ripulire oceani, laghi e fiumi dai rifiuti di plastica.

Perché un grande Paese come la Cina e una famosa multinazionale dichiarano guerra alla plastica? Perché il problema dell’inquinamento provocato da questo materiale straordinario e onnipresente ha assunto ormai le dimensioni di un’emergenza mondiale, e non si contano più gli interventi decisi a vari livelli dalla comunità internazionale, dalla Commissione europea alla città di New York, dal Kenya all’India per ridurre l’uso della plastica monouso e in particolare il packaging. Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, basta dare un’occhiata ai dati pubblicati dal Wwf: la produzione di plastica vergine è aumentata di 200 volte dal 1950. La produzione mondiale equivale a circa 53 kg per ogni persona al mondo. E ben il 36 per cento è costituito da packaging, destinato ad essere immediatamente buttato dopo il suo utilizzo. Nel 2015, il packaging di plastica ha pesato del 47 per cento su tutti rifiuti di plastica generati globalmente.


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iStock
Una discarica di plasticaiStock


Il boom della plastica è un fenomeno abbastanza recente. Come ricorda il libro appena uscito La guerra della plastica (Hoepli, 110 pagine, 12,90 euro), di cui pubblichiamo qualche estratto, nel film «Il Laureato» del 1967 durante la festa che celebra la laurea di Benjamin (Dustin Hoffman), un amico di suo padre lo avvicina, gli mette un braccio sulle spalle e con fare solenne gli pronuncia quella parola: “plastica”. Già, perché è proprio in quegli anni che uno dei materiali più fantastici mai creati dall’uomo sta avendo la sua affermazione globale. Come viene sottolineato nel libro, «tra gli anni Cinquanta e Sessanta schiere di scienziati sono riusciti a sviluppare una serie di materiali straordinari derivati dal petrolio chiamati polietilene, polipropilene (inventato dal premio Nobel Giulio Natta nel 1954), polistirolo, Pvc, Pet (brevettato nel 1973), Pmma (polimetilmetacrilato). Oggi l’85 per cento del petrolio serve per produrre combustibili, il resto viene usato dall’industria petrolchimica per sfornare nuovi materiali.

Questi polimeri si sono insinuati dappertutto, nell’arredamento, nell’edilizia, nei computer, nelle auto, negli aerei, nei vestiti, negli imballaggi, perfino nei bicchieri di carta, nelle sigarette, nelle vernici, nei cosmetici e nei dentifrici. I materiali in plastica possono assumere qualsiasi forma, sono elastici o rigidi a seconda delle necessità, hanno una buona resistenza meccanica, proteggono gli alimenti, sono leggeri e costano poco. Talmente poco da aver creato un’intera generazione di prodotti usa-e-getta: come i bicchieri, le bottiglie o il rasoio monouso, lanciato nel 1971. Il risultato è stato un aumento vertiginoso della produzione: l’ultimo rapporto realizzato dal Wwf sull’argomento ricorda che dal 1950 la plastica vergine uscita dagli stabilimenti petrolchimici ha superato quota 350 milioni di tonnellate. Secondo le previsioni, la produzione di plastica potrebbe ulteriormente aumentare del 40 per cento entro il 2030».

Per chi è interessato all’argomento c’è un luogo speciale da visitare, citato nel volume: il Museo della plastica, che si trova a Pont Canavese, in provincia di Torino, alle pendici del parco del Gran Paradiso. Gestito da una società di Peschiera Borromeo, la Cannon, il museo raccoglie migliaia di oggetti di plastica e consente di fare un viaggio nella storia di questo straordinario materiale, dalle origini di celluloide fino ai compositi di oggi.


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«Poiché la plastica» si legge nel libro, «grazie alle sue caratteristiche di praticità ed economicità, viene usata per produrre non solo bottiglie ma tanti altri oggetti usa-e-getta, il risultato è che quasi la metà di tutta la plastica prodotta diventa rifiuto in meno di tre anni». Secondo un rapporto realizzato dalla Ellen MacArthur Foundation sulla “New Plastics Economy”‘, solo il 14 per cento degli imballaggi di plastica utilizzati a livello mondiale arriva fino agli impianti di riciclo e solo l’8 per cento è effettivamente riciclato. Nel frattempo, un terzo finisce negli ecosistemi e il 40 per cento in discarica.

«Si stima che la cattiva gestione dell’immondizia» sottolinea il report del Wwf «abbia determinato che un terzo dei rifiuti di plastica (100 milioni di tonnellate) sia stato disperso in natura, causando un inquinamento del suolo, delle acque dolci e marine». Nel 2015 un’équipe guidata da Jenna Jambeck, ingegnera ambientale dell’università della Georgia, ha calcolato che ogni anno vengono riversati negli oceani tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica, e ha previsto che entro il 2025 saranno il doppio: più o meno la metà di questa immondizia è costituita da prodotti monouso come bicchieri e cannucce”.

Secondo la Commissione europea più dell’80 per cento dei rifiuti marini è costituito da plastica che, a causa della sua lenta decomposizione, si accumula nell’ambiente minacciando la fauna selvatica. Non solo: abbiamo iniziato a bere la plastica. Ne ingeriamo fino a duemila minuscoli frammenti per settimana, che corrispondono a circa cinque grammi, l’equivalente in peso di una carta di credito. In media sono pari a oltre 250 grammi l’anno. Lo ha rivelato lo studio «No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People», condotto dall’Università australiana di Newcastle e commissionato dal Wwf, che combina dati di oltre 50 precedenti ricerche. Per la maggior parte delle particelle sono sotto i cinque millimetri e vengono assunte con l’acqua che si beve sia dalla bottiglia che dal rubinetto.

Il libro La guerra della plastica riporta i risultati di numerose indagini: «Uno studio pubblicato su Environmenthal Science & Technology nell’ottobre del 2017, basato sull’analisi di campioni di plastica e sull’elaborazione di dati acquisiti da ricerche precedenti, identifica in particolare 10 grandi fiumi che trasportano negli oceani il 90 per cento circa della spazzatura di plastica: lo Yangtze, lo Xi e lo Huanpu (Cina), il Gange (India), il Cross (confine tra Camerun e Nigeria), il Brantas e il Solo (Indonesia), il Rio delle Amazzoni (Brasile), il Pasig (Filippine), l’Irrawaddy (Myanmar). La responsabilità è dunque di Paesi in forte sviluppo che non hanno sistemi abbastanza efficaci per gestire il problema dei rifiuti».

Non solo. Come ricorda un rapporto di Marevivo, anche le navi hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi una rilevante fonte di rifiuti marini; uno studio condotto nel 1987 già stimava indicativamente che durante gli anni Settanta la flotta peschereccia globale avesse scaricato oltre 23 mila tonnellate di materiale di imballaggio in plastica. Nel 1988, un accordo internazionale ha fatto divieto alle imbarcazioni marine di abbandonare scarti plastici in mare; tuttavia, come troppo spesso accade, il rispetto di questo accordo è stato essenzialmente arbitrario, facendo sì che la navigazione restasse anche nei decenni successivi un’importante fonte di inquinamento marino: si stima che già nei primi anni Novanta siano state immesse in mare 6,5 milioni di tonnellate di plastica.


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IStock
Rifiuti di plastica nel mare.IStock


L’organizzazione ambientalista Marevivo dopo aver ottenuto la messa al bando delle microplastiche nei cosmetici, ha lanciato una campagna dedicata alla sensibilizzazione sul problema delle microplastiche rilasciate dai tessuti sintetici in lavatrice. «Un solo carico di lavatrice» spiegano all’associazione «produce milioni di microfibre di dimensioni inferiori ai cinque mm che si riversano in mare dove vengono ingerite dagli organismi marini, entrando così nella catena alimentare. Il 40 per cento delle microfibre non viene trattenuto dagli impianti di trattamento e finisce nell’ambiente. Una città come Berlino, ad esempio, ne rilascia ogni giorno una quantità equivalente a 540 mila buste di plastica. L’acrilico, nello specifico, è uno dei tessuti peggiori, cinque volte in più del tessuto misto cotone-poliestere».

Lo studio «Evaluation of microplastic release caused by textile washing processes of synthetic fabrics», pubblicato su Environmental Pollution nel 2017 rivela che un solo carico di cinque kg di materiale in poliestere produce tra i 6 e i 17,7 milioni di microfibre. Queste ultime, inoltre, sono sempre più spesso trovate nei mitili e nelle ostriche, ma anche nello stomaco di pesci e uccelli marini, nei sedimenti, nel sale da cucina e nell’acqua in bottiglia. «Nondimeno» si legge nello studio, «una volta entrati nell’ecosistema marino, i microframmenti nocivi iniziano ad assorbire sostanze inquinanti e tossiche e vengono ingeriti dagli organismi che li scambiano per cibo; si accumulano nei tessuti in concentrazioni sempre crescenti via via che si sale nella catena alimentare fino a raggiungere potenzialmente l’uomo».

La guerra della plastica indica alcune soluzioni possibili: usare di più le bioplastiche, ovvero polimeri che possono essere buttati insieme ai rifiuti umidi e trasformarsi in compost; sostituire alcuni imballaggi con la carta, che è compostabile e riciclabile; raccogliere i rifiuti di plastica in modo più efficiente; riprogettare le confezioni per il packaging, che oggi sono spesso realizzate unendo polimeri diversi e che quindi non sono riciclabili. «Le industrie dovranno sostituire dove possibile la plastica tradizionale con materiali biodegradabili, per esempio nei detersivi, nelle vernici o nelle creme, e utilizzare le bioplastiche e la carta nel packaging e nelle stoviglie monouso» si legge nel libro. «Magari dovranno mettere lo yogurt o il tè freddo in un vasetto di vetro. Dovranno anche cercare di inserire più plastica riciclata nei loro prodotti, come prescrivono le norme europee. E dovranno riprogettare gli oggetti in plastica (in particolare il packaging) in modo che sia più facile riconoscerli e ritrasformarli in nuova plastica. Sono scelte costose e difficili, ma l’industria che produce oggetti in plastica ormai è sotto assedio e deve reagire per non finire nell’angolo».

Ma c’è una soluzione che potrebbe risolvere in modo definitivo il problema dei rifiuti di plastica: il riciclo. Ne parla il professor Maurizio Masi del Politecnico di Milano: «A oggi si può riciclare facilmente solo il Pet, quello delle bottiglie trasparenti, che finisce soprattutto nell’industria tessile. Una strada interessante è invece quella di mischiare i rifiuti di plastica con catrami e scarti di raffineria, in modo da avere una nuova materia prima con cui rifare la plastica utilizzando meno idrocarburi e quindi inquinando di meno. Questo è il futuro». In tal modo, sostiene Masi, il problema dei rifiuti di plastica scompare. «E se l’impianto produce la plastica da fonti rinnovabili, abbiamo fatto bingo!».

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