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De-estinzione: il ritorno del mammut

De-estinzione: il ritorno del mammut

Se ne parla da anni, ora una start-up californiana vuole farlo davvero: resuscitare l’antenato dell’elefante e far rivivere le praterie del Pleistocene. Il solito roboante annuncio? Sì e no. La tecnologia c’è. E potrebbe recuperare dall’oblio altre specie animali. O salvare quelle che rischiano di sparire.


Dopo averli predati quando eravamo Homo erectus affamati e armati di lance di pietra, oggi, da Sapiens sapiens ben nutriti e tecnologicamente evoluti, ci siamo messi in testa di resuscitarli. Presi da nostalgia per quei giganti dall’immenso pelo e dalle imperiose zanne ricurve, non ci dispiacerebbe vederli ruminare di nuovo nelle praterie siberiane. E se i mammut non esistono più da circa 4-5.000 anni (si estinsero un po’ per i cambiamenti climatici, un po’ per i nostri inseguimenti), lo spettacolo pirotecnico della scienza promette di rimaterializzarli, con effetti speciali genetici di rara maestria.

Resuscitare l’icona degli animali scomparsi (così come altre specie un tempo viventi) è un’idea che circola da anni. Ora, a tentare il colpo è una start-up californiana dal nome eloquente: Colossal. Con un budget di partenza di 15 milioni di dollari – non molto ma è un inizio – e la collaborazione della Harvard University, ha annunciato l’ambiziosa impresa: introdurre sequenze genetiche del mammut (ossa, denti e intere carcasse sono stati scoperti in passato nel permafrost della Siberia) – nel genoma di una specie affine, l’elefante asiatico, che ne condivide il 99,6% del patrimonio genetico.

In questo modo, tramite la tecnica Crispr, un formidabile taglia e incolla molecolare, gli scienziati modificherebbero il genoma dell’elefante asiatico rendendolo il più possibile simile a quello del suo progenitore siberiano. Dando vita a un «ibrido» elefante-mammut. Progetto evocativo, quello della «de-estinzione» (come viene oggi chiamato) che ha calamitato i titoli dei grandi quotidiani internazionali e di note riviste scientifiche, tra cauti entusiasmi e palese scetticismo. Anche perché, come ricorda Massimo Sandal, biologo molecolare e divulgatore, nel saggio La malinconia del mammut (presentato al Food&Science Festival di Mantova), i tentativi precedenti di far rivivere animali estinti si sono fatti notare per i loro clamorosi flop.

Uno dei primi risale agli anni Trenta, nella Germania nazista, quando i fratelli Heinz e Lutz Heck, biologi e zoologi, cercarono di riportare in vita l’uro, l’antenato degli attuali buoi, ma ben più forte e feroce, citato anche nel canto dei Nibelunghi: «Rappresentante della fauna primigenia della Germania, l’auroch era un tassello essenziale della mitologia nazista» racconta il libro. Ciò che fecero, in realtà, fu incrociare esemplari esistenti di una sottospecie correlata per ricostruire, più o meno, le caratteristiche di quella estinta. Un simulacro, più che un risultato.

Ancora: nel 2003 biologi spagnoli clonarono il bucardo, lo stambecco dei Pirenei, il cui ultimo esemplare, Celia, si era estinto tre anni prima. Dalle sue cellule ottennero quasi 500 embrioni, inseriti in 44 madri surrogate scelte tra un’altra specie di stambecchi. Cinque rimasero gravide e da una sola nacque un cucciolo che morì, malformato, subito dopo. Gli scienziati ci rimasero malissimo.
Più di recente, l’idea di «ricreare» i mammut è stata rilanciata da ricercatori come l’americano George Church, genetista molecolare e pioniere della tecnica Crispr, e da ecologi come il russo Sergey Zimov, che vorrebbe ripristinare l’habitat siberiano partendo dagli erbivori che un tempo lo abitavano e lo mantenevano in vita.

Anche la sfida annunciata dalla Colossal ha lo stesso obiettivo finale, afferma sul sito della start-up il co-fondatore Ben Lamm: l’elefante mammuttizzato sarebbe in grado di «de-estinguere» (volendo usare lo stesso termine), un habitat oggi scomparso: quelle distese di erbe che gli antichi mammiferi calpestavano e che dopo la loro scomparsa diventarono tundra, con fitti alberi. Ma le antiche praterie trattenevano nel sottosuolo il metano che oggi, man mano che il permafrost si scioglie, viene rilasciato, contribuendo all’effetto serra.

Impresa non proprio dietro l’angolo: in un’intervista al sito scientifico Stat, Church, il genetista che partecipa al progetto della Colossal, ha detto che «ci vorranno almeno sei anni prima che un cucciolo di mammut-elefante nasca, altri 10 per fargli raggiungere la maturità». E, dopo il primo barrito, che succederà? «Questo animale “chimera” verrebbe inserito in un ambiente, l’attuale tundra, che non è più il suo» riflette Sandal. «Come riuscirebbe a sopravvivere? Inoltre i mammut sono animali sociali, vivono in branchi, l’esemplare numero uno che cosa farebbe? Sarebbe una povera creatura solitaria».

Meglio, secondo l’esperto, riportare in vita animali estinti in epoche non troppo remote, così da reinserirli in ecosistemi non dissimili dai loro. A noi vengono in mente il dodo (amabile uccello di Mauritius decimato da olandesi e portoghesi nel 1600) e la tigre dai denti a sciabola. Anche se quest’ultima, a ben pensarci, scorrazzava in epoche preistoriche.

«Sarebbe certo bello rivederli, perché sono creature che appartengono al patrimonio perduto del nostro immaginario. Ma avrebbe più senso riportare al presente animali come il lupo marsupiale della Tasmania, estinto negli Anni Trenta: faceva parte di un ecosistema che non si è modificato».

Infine, si potrebbero utilizzare le stesse tecniche per proteggere esemplari che corrono il pericolo di scomparire. Per ogni specie da resuscitare, come il mammut, con gli stessi soldi se ne potrebbero salvare 40 di esistenti. Esistenti ancora per poco: animali come il rinoceronte di Sumatra (un esempio fra i tanti) che hanno ormai scarsissima variabilità genetica, il che rende difficile l’idea di ripopolarne la specie, oltretutto partendo da pochi consanguinei.

«Tutto questo discorso di de-estinzione può servire, ma rientra nel “tecnosoluzionismo”, quell’idea che tutte le soluzioni passino attraverso la bacchetta magica tecnologica» conclude Sandal. «Il che ci spinge verso obiettivi colossali, che hanno però hanno un impatto concreto relativo, quando invece sarebbe più urgente salvaguardare ecosistemi, fermare il disboscamento o limitare le colture intensive. Missioni che fanno sognare meno, mi rendo conto, resuscitare il mammut è un progetto molto più seduttivo. Ma restiamo consapevoli di ciò che stiamo facendo, e non sacrifichiamo troppo a queste imprese titaniche».

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