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La Brexit fa male (anche) all’Università

La Brexit fa male (anche) all’Università

I britannici si stanno rendendo conto che sganciarsi dall’Unione europea e gestire la crisi causata dal Covid-19 è impossibile. E oltre al commercio e alla finanza, anche il business degli atenei avrà pesanti contraccolpi. Con meno studenti stranieri, la metà potrebbe chiudere.


Negli ultimi due mesi, i sudditi di Sua Maestà se l’erano quasi dimenticata. Chi ci pensava più a quei tre anni di battaglie divisive, seppellite finalmente la sera del 31 dicembre scorso, in un’atmosfera drammatica, con i Leavers a brindare e i Remainers in lacrime. La peste del coronavirus aveva sospeso anche la Brexit.

Adesso che entro il 30 giugno il governo di Boris Johnson dovrà decidere se prorogare il periodo di transizione oltre la fine dell’anno o andarsene definitivamente, gli inglesi realizzeranno che quella libertà riconquistata significa anche perdita dei contributi europei per le loro zone rurali e agricole, gestione solitaria dei rapporti commerciali con la Cina, difficoltà tecniche di entrata e uscita delle merci, rischi di rallentamento al traffico frontaliero, scarsità di manodopera da utilizzare nei settori più disparati, da quello sanitario a quello della ristorazione.

L’esito dei primi due incontri virtuali tra Londra e Bruxelles ha riportato la questione al solito estenuante tira e molla. Ora però, al rischio di un’economia travolta da un’uscita senza paracadute si aggiunge l’emergenza di una crisi epidemica che ha messo in ginocchio il sistema globale. L’esecutivo dei Leavers che sostiene Johnson non molla di un centimetro. «Non accetteremo mai le posizioni dell’Unione europea sulle questioni della libera concorrenza, della pesca, della sovranità della giustizia» ha fatto sapere la squadra guidata da David Frost all’indomani della prima disastrosa riunione. «Abbandonare le trattative non era nei piani, ma se capiremo che non ne vale la pena ci organizzeremo per uscire senza accordo».

Sull’altra sponda dell’oceano il collega Michel Barnier è ugualmente determinato. «La Gran Bretagna punta i piedi su tutto: pretende di concludere accordi selettivi e allo stesso tempo si rifiuta di estendere il periodo di transizione. È surreale».

Nel Paese reale le associazioni di categoria lanciano segnali di allarme. La Camera di commercio britannica fa notare che quasi nulla di quanto promesso è stato fatto per aggiornare le aziende sulla nuova gestione doganale da introdurre una volta che il Regno Unito diverrà Paese terzo. Sulla carta erano stati accantonati 34 milioni di sterline per aiutare le 250.000 società che commerciano con l’Europa a far fronte alla compilazione dei nuovi moduli che verranno introdotti. A supporto erano stati programmati 540 corsi di aggiornamento, ma soltanto 99 sono stati completati. La Bbc ha scoperto che 878 aziende da sole hanno usufruito della metà dei finanziamenti a disposizione. Le altre sono rimaste a secco: di fondi e di informazioni.

Downing Street sostiene che una proroga equivarrebbe a tenere la Gran Bretagna o legata mani e piedi alle regole della matrigna Europa, proprio nel momento in cui il governo ha bisogno di maggiore flessibilità per affrontare gli effetti del coronavirus. Ma Alex Veicht, a capo del settore per le politiche internazionali dell’Associazione di spedizioni e trasporti afferma: «Sganciarsi dall’Unione e gestire la crisi causata dal Covid-19 è tecnicamente impossibile. Le stesse persone che avrebbero dovuto gestire la Brexit ora sono impegnate nel trovare soluzioni al problema dei trasporti in piena emergenza sanitaria».

Anche nel settore dell’istruzione gli appelli si moltiplicano. Costrette dal distanziamento sociale a mettere un limite al numero degli studenti iscritti, le università prevedono una perdita di 2,5 miliardi di sterline solo in tasse d’iscrizione. L’obbligo a pagare in pieno le 9.250 sterline annue dovute anche nel caso di corsi tenuti soltanto online non incentiva le adesioni. Uno studio della London Economics rivela che persino le istituzioni più prestigiose come Oxford e Cambridge vedrebbero ridurrsi il numero degli studenti provenienti dal resto del Paese e dagli altri Stati.

Quelli europei sono 130.000, soltanto gli italiani quasi 16.000. La diminuzione comporterebbe un conseguente taglio nei finanziamenti alle attività di ricerca, sperimentazione e collaborazione internazionale. Se a causa di un’uscita «no deal», a queste cifre dovesse aggiungersi anche l’assenza di tutto l’indotto creato dai programmi di interscambio europeo come l’Erasmus, la metà degli atenei potrebbe chiudere i battenti.

Una proroga della transizione viene quindi vista dai tecnici come l’unica soluzione percorribile. L’opinione pubblica invece rimane stabilmente divisa a metà. Nessun sondaggio ha finora evidenziato significative inversioni di tendenza. «E al momento» nota il politologo Tim Bale, «i miei connazionali riescono a raccogliere firme per petizioni a tutela dei nostri animali domestici, ma non per una che richieda l’estensione del periodo transitorio».

Figuriamoci se è disposto a farlo l’unico premier inglese che è riuscito a far approvare al Parlamento l’accordo su Brexit, promettendo di dirottare i contributi versati all’Unione europea sul Servizio sanitario nazionale.

Se Boris Johnson dovesse rimangiarsi la parola, il suo governo sarebbe costretto a contribuire con circa 800 milioni di sterline al budget europeo per ogni mese di permanenza. Andarsene sbattendo la porta, invece, risparmierebbe alle casse statali anche i 49 miliardi dovuti alla controparte come prezzo per un divorzio consensuale.

Se le previsioni economiche fossero una scienza esatta, sarebbe bastato mettere pro e contro sui due piatti della bilancia e decidere. Ma non è così che funziona e il Regno Unito sta dirigendosi verso la scadenza del 30 giugno con il motore ancora in folle, senza sapere da che parte girare il volante.

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