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Come salvarsi la prostata e vivere felici

Come salvarsi la prostata
 e vivere felici

Sulla salute di quella ghiandolina tutta maschile, oggi le novità sono parecchie: diagnosi precoce, test personalizzati, chirurgia mininvasiva nel caso di tumore. Degenza di pochi giorni e guarigione in oltre il 90 per cento dei casi. Quindi, cosa aspettate a fare prevenzione?


Sarà forse sessista pensare che, tra loro, i maschi parlino solo di sport, donne e motori, ma su una cosa possiamo scommettere: dai 50 anni in su, al centro dei loro argomenti ci sarà sempre più spesso quella ghiandolina, nascosta dietro la vescica, che inizia a mostrare fastidiose manie di grandezza. Ma tu, di notte, quante volte ci vai in bagno, mi sa che la mia è un po’ ingrossata, sarà il caso di fare il test del Psa, e se provassi con prostaben/prostabel/prostasan?

Il pensiero ansiogeno, alla fine, porta sempre lì: la paura di un cancro (benché nel sinistro repertorio dei tumori, quello alla prostata sia uno dei più trattabili). Ma la riottosità di molti uomini a farsi visitare dall’urologo non aiuta a stare lontano dai guai. Eppure, di nuovo e di promettente c’è parecchio, in questo campo: diagnosi precoci, trattamenti personalizzati, interventi chirurgici sempre meno invasivi, degenze brevi e indolori, prognosi eccellenti. Per convincersene, basta leggere fino in fondo l’intervista ad Aldo Bocciardi, direttore della Struttura complessa di Urologia dell’ospedale Niguarda di Milano.

Davvero gli uomini sono restii a fare prevenzione?

È così, quasi sempre vengono nell’ambulatorio dell’urologo accompagnati dalla compagna o dalla moglie. E vale soprattutto per la mia generazione, i giovani mi sembra siano più aggiornati e attenti alla salute. Il problema è che tanti non vogliono andare dall’urologo per non mettere in dubbio la loro erezione…

Per evitare guai «intimi», invece, cosa si dovrebbe fare?

Noi consigliamo due cose fondamentali: un’ecografia addominale dai 50 in poi, tutti gli anni, in modo da dare un occhio attento a organi come reni uretere e vescica, i tre tumori urologici principali tra i maschi.

Altrimenti?

Altrimenti le cose vanno avanti e diventano molto più impegnative da affrontare. Oggi la diagnosi media di un cancro alla prostata è anticipata di 10 anni rispetto al passato.

Vuol dire che fate più diagnosi di tumore?

Sì, perché vengono fatte prima. Ora il picco è intorno ai 65 anni, e accorgersene prima è sempre una bella cosa, soprattutto nei tumori urologici silenti, che non danno segni. Io ho iniziato a fare questo mestiere nell’80, quando le neoplasie alla prostata venivano diagnosticate per ritenzione urinaria o per la presenza di metastasi ossee.

Quando ormai era troppo tardi, immagino.

Al terzo stadio di localizzazione, cioè quando si verificano fratture spontanee delle ossa. Erano diagnosi molto tardive, verso i 75-80 anni. Ora è anche molto importante la qualità delle terapie che si fanno, perché i pazienti sono 50-60enni con una vita sociale e lavorativa attiva.

Il test del Psa, però, è un esame piuttosto controverso perché non individua in modo sicuro il tumore ma si alza anche per una semplice infiammazione…

Alla fine, il Psa resta l’unica spia per iniziare una serie di accertamenti. Se si accende quel segnale, si deve indagare. Il primo indizio però non è tanto un suo eventuale valore alto, bensì il suo andamento nel tempo.

Per esempio?

Se il paziente ha nel sangue un valore di Psa di 1 – fra zero e 4 è normale – e l’anno dopo ha 3, anche se è sempre sotto i 4 non va bene perché si è triplicato. Ci sono pazienti con valore 9 di Psa da 20 anni, per dire.

In quel caso perché non è preoccupante?

Perché magari è dovuto a un adenoma benigno o a una calcolosi all’interno, oppure a prostatiti fatte in passato. Quello che a noi appare sospetto è un progressivo aumento del Psa. Insomma, è un esame che va valutato e contestualizzato.

Ma va fatto tutti gli anni?

Dopo una certa età sì, perché così possiamo inserirlo in un grafico, capire se siamo davanti a una crescita o a una linea piatta indipendemente dal valore. Un aumento esponenziale è il massimo dell’allerta. Se cresce in modo costante è un campanello rosso. Non significa che si abbia un cancro ma va sorvegliato.

A quel punto, come si procede?

Da qualche anno esiste una risonanza magnetica specifica, che si chiama multiparametrica. Qui gli stadi da valutare sono cinque. Il numero tre, borderline, va tenuto sotto controllo. Il quattro e il cinque portano subito alla biopsia prostatica.

Che non è mai un esame gradevole…

Però in questo caso c’è un vantaggio: la risonanza multiparametrica localizza la posizione della formazione sospetta, e le sue immagini vengono sovrapposte a quelle dell’ecografia per fare una biopsia mirata sul target. Con un esito positivo ma a basso rischio, si segue il protocollo di sorveglianza attiva.

Nel concreto, che significa?

Dosaggio del Psa ogni tre mesi, risonanza ogni sei e biopsia ogni anno.

Una bella maratona.

Già, non a caso molti escono dal protocollo e scelgono l’intervento chirurgico.

Intervento che fa un po’ di paura per le conseguenze sull’erezione e il rischio di incontinenza… è ancora così?

Abbiamo i dati statistici. Negli anni Ottanta un intervento per levare la prostata dava un’alta percentuale di incontinenza, per non parlare dell’erezione, che in pratica spariva. Poi c’è stata un’evoluzione esponenziale della tecnica e tutto è cambiato. Prima erano operazioni a cielo aperto, oggi si fa con laparoscopia e chirurgia robotica; e robot come il Da Vinci ti permettono interventi prima impossibili, minimamente invasivi.

E il sesso?

Il rischio più basso di impotenza si aggira intorno al 20 per cento, ma in molti casi sono danni recuperabili.

Facciamo finta di essere in sala operatoria, che succede?

L’intervento a cielo aperto tradizionale significa passare davanti alla vescica, liberarla dai suoi legamenti per accedere alla prostata e asportarla, ricollegare l’uretra alla vescica e poi respingere quest’ultima verso il basso, dov’era prima.

Insomma, un bel po’ di roba da spostare.

Tanta roba, sì. Oggi, dal momento che possiamo operare con un’ottica robotica a 30 gradi, e gli strumenti ci seguono, passiamo da dietro la vescica, arriviamo alla prostata e la tiriamo giù, dall’alto verso il basso. È come se un meccanico in officina lavorasse sulla coppa dell’olio con un accesso più semplice.

Bella questa immagine…

Oggi operiamo, per continuare con la metafora, come un meccanico che ripara il motore da sotto anziché da sopra, per non strappare i cavi elettrici. Meno demolisci, meno danni procuri. Questo tipo di intervento retrovescicale sono stato il primo a farlo al mondo, anni fa. Poi un collega americano ha visto che era un bel modo di operare, e ha condotto a Detroit un lavoro di comparazione fra l’intervento tradizionale e quello nuovo. Lo studio ha dimostrato che funzionava meglio, e questo tipo di intervento è stato autorizzato anche negli Stati Uniti. Ora si sta diffondendo nel resto del mondo.

I vantaggi per il paziente?

La convalescenza dura due notti di ricovero, il secondo giorno il paziente è senza catetere e cammina per il reparto, il terzo va a casa solo con un drenaggio. Dopo sette giorni toglie il tubicino. Anche dal punto di vista psicologico è un’altra cosa. Quindici anni fa la degenza era otto giorni, oggi è come un’appendicectomia. Con la diagnosi precoce e riuscendo a essere mininvasivi, sotto i 65 anni abbiamo meno dell’1 per cento di incontinenza.

Si deve fare anche la chemio o non è necessaria?

Dipende dallo stadio di sviluppo del tumore. Se la diagnosi è precoce, spesso l’intervento è risolutivo. Abbiamo nuove tipologie di chemioterapia, ma la prima cura è quella ormonosoppressiva che abbatte il testosterone, la benzina del tumore prostatico. È una terapia che esiste da quando faccio questo mestiere. Poi nuovi farmaci per tumori avanzati o ormono-resistenti che non rispondono al blocco del testosterone. Ma mi lasci ripetere una cosa importante.

Prego.

Al di là dei robot, che sono il presente e il futuro della chirurgia sulla prostrata, resta fondamentale la diagnosi precoce. Grazie a questa oggi abbiamo il 90 per cento se non di più di guarigioni.

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