La morte di George Floyd sta determinando profonde ripercussioni sulla campagna elettorale in vista delle presidenziali statunitensi del 2020. E, alla luce di scontento e proteste, vale forse la pena interrogarsi su quale potrà essere il comportamento dell’elettorato afro-americano.
Cominciamo con alcune osservazioni di natura generale. Lo scorso gennaio, il Pew Research Center ha evidenziato che, nel novembre del 2020, il numero dei neri che potranno votare risulterà inferiore a quello degli ispanici: saranno 32 milioni i latinos che avranno la possibilità di recarsi alle urne, a fronte di 30 milioni di afroamericani. Se il peso complessivo dell’elettorato nero è quindi in diminuzione, aumenta comunque quello delle minoranze prese nella loro totalità: se nel 2000 queste ultime valevano circa un quarto dei votanti, nel 2020 la quota salirà a un terzo.
In secondo luogo, non bisogna trascurare che storicamente la maggioranza del voto afroamericano sostiene stabilmente il Partito Democratico e che, almeno negli ultimi 30 anni, ha al suo interno tendenzialmente sostenuto candidati di area centrista. Basti pensare che nel 2019, riporta sempre il Pew Research Center, i democratici afroamericani si sono definiti moderati per il 43%, conservatori per il 25% e liberal per il 29%.
D’altronde, per rendersi conto di questo stato di cose, basta dare un’occhiata alle primarie democratiche nell’arco degli ultimi tre decenni: come evidenziato da Steve Kornacki su Nbc News, nel 1992 la maggioranza dei neri votò per Bill Clinton, nel 2000 per Al Gore, nel 2004 per John Kerry e nel 2016 per Hillary Clinton. L’unica (parziale) eccezione fu Barack Obama, che – nel 2008 – non poteva esattamente definirsi un candidato centrista. Ciononostante, l’allora senatore dell’Illinois faticò non poco per guadagnarsi la maggioranza del voto afroamericano alle primarie di quell’anno e i neri iniziarono a prenderlo seriamente in considerazione soltanto dopo la sua vittoria nel caucus dell’Iowa.
Lo stesso centrista Joe Biden, alle attuali primarie, è stato letteralmente salvato dal voto afroamericano: non dimentichiamo che l’ex vicepresidente fosse sull’orlo del tracollo elettorale lo scorso febbraio e che si sia ripreso soprattutto grazie al saldo sostegno dei neri nelle aree meridionali (a partire dal South Carolina). A prima vista sembrerebbe quindi che, il prossimo novembre, il candidato democratico possa contare automaticamente sull’intero blocco afroamericano. Uno scenario che, guardando con maggiore attenzione, non risulta tuttavia così scontato.
Se è praticamente certo che Biden riuscirà a ottenere la maggioranza del voto nero, non è però altrettanto garantito che riesca a raffrenare possibili emorragie di elettori afroamericani. Emorragie che potrebbero rivelarsi addirittura fatali per l’ex vicepresidente. Un campanello d’allarme è stato suonato, a fine maggio, dal Democracy Fund + UCLA Nationscape project, secondo cui Biden potrebbe contare sul 79% del voto afroamericano e Donald Trump sull’11%: tutto questo, mentre – nel 2016 – Hillary Clinton aveva conseguito l’88% e Trump l’8%.
Nel dettaglio, dove Biden sta riscontrando le maggiori difficoltà è tra gli afroamericani giovani (dai 18 ai 29 anni): qui l’ex vicepresidente è al 68%, mentre Hillary era all’85%. Secondo lo stesso sondaggio, Trump starebbe invece guadagnando terreno (per quanto lievemente) in questa quota elettorale. E non è tutto. Secondo una rilevazione, pubblicata da Rasmussen lo scorso 28 maggio, solo il 27% degli afroamericani intervistati ha dichiarato di essere concorde con una recente (e controversa) affermazione di Biden, secondo cui gli afroamericani che votano per Trump non sarebbero da considerarsi neri.
Una tesi che aveva suscitato non a caso svariate polemiche e che aveva costretto l’ex vicepresidente a chiedere scusa. D’altronde, già a febbraio scorso, un sondaggio di BlackPac mostrò che una quota considerevole di elettori neri si dicesse scontenta del Partito Democratico. Sottolineiamo che queste inquietudini dell’elettorato afroamericano siano state fotografate dai sondaggi prima che il caso Floyd esplodesse in tutta la sua dirompenza sul piano politico.
E proprio il caso Floyd sta spingendo Trump e Biden ad adottare strategie molto differenti. L’inquilino della Casa Bianca ha condannato subito l’uccisione dell’afroamericano, ordinando al Dipartimento di Giustizia e all’Fbi, di indagare sull’accaduto. Nello stesso tempo, ha comunque scelto di imboccare la via dura, presentandosi come il tutore dell’ordine, contro gli episodi di guerriglia e saccheggio, verificatisi di recente in varie città americane. Una strategia che, sotto molti aspetti, ricorda quella adottata efficacemente da Richard Nixon durante la campagna elettorale del 1968. E non sarà del resto un caso che, nell’ultima settimana, Trump abbia spesso twittato slogan tipicamente nixoniani come «legge e ordine» o «maggioranza silenziosa».
Il presidente ha del resto ribadito che la sua classica strategia per attrarre il voto degli afroamericani sia quella di puntare sul miglioramento delle loro condizioni socioeconomiche. Commentando lo scorso 5 giugno i risultati incoraggianti sul versante dell’occupazione, Trump ha non a caso affermato che un’economia forte «è la più grande cosa che possa accadere per le relazioni etniche». La scommessa dell’inquilino della Casa Bianca consiste dunque nel coniugare l’approccio law and order con il miglioramento delle condizioni economiche degli afroamericani.
Biden, dal canto suo, ha optato per una strategia differente. Ha maggiormente battuto sulla questione dei diritti civili e ha inviato in tal senso un messaggio video al funerale di Floyd lo scorso 9 giugno. Il problema per l’ex vicepresidente consiste tuttavia in una scarsa linearità. Da una parte, ha criticato in un suo recente discorso a Filadelfia la degenerazione delle proteste in guerriglia e tafferugli, ma – dall’altra – ha duramente attaccato l’approccio duro, invocato da Trump.
Anche sulla questione del taglio ai finanziamenti della polizia (chiesto dagli attivisti del movimento Black Lives Matter) l’ex vicepresidente ha mostrato non pochi tentennamenti prima di assumere una posizione di contrarietà alla proposta. Ciononostante, il problema va al di là di Biden considerato in sé stesso. E investe l’interezza del Partito Democratico, che su Floyd e la polizia rischia di registrare fratture interne tra centristi e sinistra. Non solo sulla sua contrarietà al taglio dei fondi per le forze dell’ordine l’ex vicepresidente è stato già nei fatti contraddetto dai sindaci democratici di New York e Los Angeles (che hanno decurtato i budget per la polizia).
Ma, più in generale, anche al Congresso si registrano svariate fibrillazioni: basti pensare alla posizione antitetica, espressa sul tema, dai senatori Bernie Sanders e Joe Manchin. Biden, dal canto suo, si trova ad avere a che fare con un elettorato particolarmente eterogeneo, che va dai centristi alla sinistra: e questo gli impedisce di assumere una linea effettivamente consequenziale. Sulla questione delle proteste, Trump ha assunto una posizione indubbiamente controversa, che potrebbe anche costargli cara in termini elettorali.
Ma una posizione comunque chiara e coerente. Biden, per parte sua, sta invece tentennando troppo. E anche questa mancanza di chiarezza potrebbe essere elettoralmente foriera di cattive notizie per lui. Del resto, come sottolineato su Politico da Elena Schneider e Laura Barron-Lopez il 5 giugno scorso, il principale problema per l’ex vicepresidente continua a essere rappresentato dagli afroamericani giovani, che non nutrono eccessiva simpatia nei suoi confronti.
Nello specifico del voto afroamericano resta pertanto Biden a rischiare di più. Se a Trump basterebbe incrementare (anche lievemente) i sostegni in quell’area elettorale, l’ex vicepresidente deve invece evitare defezioni che potrebbero seriamente danneggiarlo in occasione del voto novembrino. Defezioni che, in caso, solo in piccola parte confluirebbero nel Partito Repubblicano e che – in maggioranza – si dirigerebbero o verso partiti piccoli o (ancor più probabile) verso l’astensione (come parzialmente già accaduto nel 2016).
È chiaro comunque che un simile scenario favorirebbe l’attuale presidente, proprio perché uno dei pilastri elettorali di Biden è notoriamente costituito dal voto dei neri: un voto che, se iniziasse a vacillare, creerebbe non pochi problemi alla campagna del candidato democratico. Anche per tale ragione, sembra che quest’ultimo sia orientato a scegliere un’afroamericana come candidata alla vicepresidenza: i nomi più gettonati al momento sono quelli della senatrice Kamala Harris e dell’ex deputata della Camera della Georgia Stacey Abrams, senza poi dimenticare l’incognita dell’ex first lady Michelle Obama e chi – come Laurence Kotlikoff su The Hill – ha addirittura proposto Condoleezza Rice. Bisognerà eventualmente capire se una simile scelta basterà ad assicurare a Biden la compattezza del voto afroamericano in suo sostegno.
Trump, per parte sua, fa affidamento sui numeri dell’economia. I recenti dati sull’occupazione, scesa a maggio al 13,3% contro il 14,7 di aprile, sono ai suoi occhi indubbiamente incoraggianti per corteggiare il voto dei neri. Ma è altrettanto chiaro che il presidente dovrà ancora attendere per capire se gli Stati Uniti si trovino avviati verso una ripresa economica realmente stabile e solida. Nel 2019 il tasso di disoccupazione per gli afroamericani era al 6,1%: il più basso da (almeno) il 1990. È evidente che, vista la crisi del coronavirus, non sarà facile tornare in tempi brevi a quella cifra. Ma, se riuscisse anche solo ad avvicinarvisi, per Trump si aprirebbero significativi spazi di manovra per rafforzarsi nel voto afroamericano. La partita quindi, almeno per ora, resta aperta.
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