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Tutti contro Conte

Partito democratico e Cinque stelle da alleati del presidente del Consiglio si stanno trasformando in pericolosi nemici. Tra i più scettici ci sono Dario Franceschini e Luidi Di Maio. E così la soluzione potrebbe essere un rimpasto di ministri e una nuova maggioranza con l’ingresso di Forza Italia.


C’è stata la prima ondata. Quella scandita dai lugubri bollettini preserali di Angelo Borrelli, capo della protezione civile ormai sparito dalla scena mediatica. Allora, era il virus a terrorizzare. Le bare di Bergamo, i medici in trincea, gli ospedali al collasso. Otto mesi più tardi, quelle meste comunicazioni sono sostituite da scarne note pomeridiane. Adesso, quei numeri fanno meno paura. O meglio: fanno meno paura del governo. Dopo l’estate garibaldina e l’autunno di clausura, una domanda continua a ronzarci in testa: in che mani siamo? Errori, sottovalutazioni, imperizia: l’esecutivo, accidentalmente incoronato nell’estate del 2018, sancisce ogni giorno la sua casualità. Mentre il sovrano Giuseppi, meno popolare che mai, non riesce più ad abbindolare i sudditi elettori. Balbettante, incerto, confuso. Sfiduciato dall’Unione europea, ignorato all’estero e malsopportato in patria. Cittadini, imprenditori, governatori, alleati. Conte sembra inviso a tutti. Ogni sua apparizione, durante la declamazione dell’ennesimo Dpcm o nei tg della sera, è accompagnata da sudori freddi e un’incrollabile certezza: i proclami resteranno promesse. «Io lo so che non avremo nuove chiusure, che non rischiamo nuovi lockdown» assicura lo scorso 5 agosto. «Lo so perché abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare per questo e su questo ogni giorno. Siamo tranquilli perché abbiamo creato una rete sanitaria efficace ed efficiente».

L’evidenza ha sepolto ogni spavalderia. L’Italia è di nuovo reclusa. Le mancanze sono incalcolabili: migliaia di medici necessari, centinaia di ventilatori polmonari da consegnare, dieci giorni per fare un test. E un uomo solo al comando: Domenico Arcuri, commissario all’emergenza. A dispetto delle prodezze, continua ad accumulare incombenze. Dopo le mascherine introvabili, i tamponi scomparsi, i reagenti fantasma, le terapie intensive virtuali, i banchi a rotelle dimezzati e i bandi indetti con la sveltezza di un bradipo, al super boiardo toccherà anche distribuire i vaccini. Notizia salutata in ogni angolo della penisola da riti scaramantici e invocazioni al creatore. Così, rimane un mistero la mancata nomina del calabresissimo Mimmo a commissario sanitario nella sua regione. Tragicomedia emblematica. Tre prescelti in appena dieci giorni: l’ignaro, il negazionista e l’indagato. Tutti deposti.

Conte e Arcuri. Il premier e il suo fido scudiero. Fuoriclasse in piroette linguistiche e furbeschi scaricabarile. L’ultimo è sul semaforico sistema dei 21 criteri, talmente macchinoso da raccogliere unanimi critiche. Anziché chieder venia, il governo ha però preferito incolpare alle regioni. Come già accaduto, del resto, con il palleggiamento estivo sull’apertura delle discoteche: concesso dai giallorossi, ma addebitato ai governatori. E il premier adesso minaccia di modificare il Titolo V della Costituzione, per inserire una «clausola di supremazia» dello Stato. Perfino il presidente della Conferenza delle regioni, il dem Stefano Bonaccini, trattiene a stento l’irritazione.

E le «poderose» misure economiche annunciate dal presidente del Consiglio? Si sono risolte in improbabili e farraginosi bonus: mobilità, connettività, vacanze. O in riffe telematiche, come I click day. E i «ristori in tempo record» a chi è stato costretto a chiudere? Tardive mancette da migliaia di euro. «Un’elemosina di Stato» ammette Confcommercio. «Il governo è prigioniero di ideologia, errori e ritardi» compendia Confindustria. Massimo Bottura, principe degli chef italiani, esemplifica: «Mi sono visto riconoscere una quota di 865 euro. Ma che rimborso è? Non ci pago neanche gli stipendi. L’unica misura positiva è la cassa integrazione, che però ha ritardi mostruosi. E quindi, ai miei ragazzi, l’ho anticipata io».

Conte promette che il governo farà di più e meglio. Ma continua ad annaspare. Uno sbaglio dopo l’altro, pure il suo eloquio rococò è ormai anodino. La macchina comunicativa, affidata al diabolico Rocco Casalino, s’è inceppata. Durante la notifica dell’ultimo Dpcm, il premier già sembrava aver perso la sicumera e il paternalismo con cui anestetizzava il popolo. Visibilmente impreparato, ha annunciato la caotica tripartizione cromatica del Paese: rosso, arancione, giallo. Trasformando l’incertezza dei telespettatori in sgomento. Le successive mosse riparatorie sono state più maldestre di uno sputo controvento. Prima la lettera da amante deluso a Repubblica: rea, perfino lei!, di avergli girato le spalle sottolineando la mollezza estiva. «Non ho mai concesso pause alla mia attività istituzionale» replica Conte indispettito. «Anche nel mese di agosto sono stato sempre immerso nello studio dei vari dossier e nella soluzione dei vari problemi». Piccata risposta utile solo a enfatizzare osservazioni di cui non si sarebbe accorto nessuno. Insomma, toppa peggiore del buco: un caso da manuale degli errori di comunicazione politica.

Come la letterina inviatagli da Tommaso di Cesano Maderno, bambino di 5 anni alle prese con dilemmi prefestivi da zona rossa: «Caro presidente, chi consegnerà i doni a tutti i bambini del mondo?». Giuseppi, comprensivo e ironico, replica a favor di social: «Mi ha garantito che già possiede un’autocertificazione internazionale». Uno scambio epistolare che sembra mutuare le gesta dal politico che Conte più ha ammirato: John Fitzgerald Kennedy. Settant’anni fa, anche l’allora presidente degli Stati Uniti diffonde la letterina di una piccola simpatizzante dal Michigan. Michelle, di 8 anni, implora JFK: «Ferma i russi, per favore. Se bombardano il Polo Nord uccideranno Babbo natale». Segue amorevole replica. La mossa di Giuseppi si è così trasformata in sberleffo. Il poliedrico Luca Bizzarri, che su Twitter ha il doppio dei follower di Conte, pubblica sul suo profilo una folgorante parodia: «Caro Luca, sono Adelmo, un bambino di 6 mesi, e ho una domanda da farti. Secondo te il nostro presidente del Consiglio pensa davvero che siamo tutti così coglioni?».

Un inciampo dopo l’altro. Risultato: consensi ancora più giù. E una leader dell’opposizione, Giorgia Meloni, che supera Conte nel gradimento degli italiani. Ma è l’intera maggioranza che, ovviamente, traballa. I Cinque stelle vorrebbero sbarazzarsi di ministri come Roberto Gualtieri, confuso plenipotenziario dell’Economia, o Roberto Speranza, volenteroso reggente della Sanità e autore dell’imperdibile Perché guariremo, già ritirato dalle librerie. Per non parlare di Paola De Micheli, ramo Trasporti, in balia di Autostrade nonostante «la caducazione della concessione» annunciata dal premier. Intanto il responsabile degli Esteri, Luigi Di Maio, rinfrancato dall’esaltante melina offerta dagli Stati generali, punta a riprendersi sottobanco il Movimento. E c’è solo un uomo che può ostacolare i suoi piani: Giuseppi, appunto. I due non si parlano da mesi. Al primo ministro, pur di non tornare a insegnare nelle aule universitarie, rimane infatti solo un piano b: prendersi quel poco che resta dell’impero grillino. Giggino permettendo.

L’assedio, però, è concentrico. Anche il Pd vorrebbe liberarsi degli «inadeguati» ministri pentastellati. Come Lucia Azzolina, autrice di inenarrabili débâcle sulla scuola. O Nunzia Catalfo, dedita a fallimentari sussidi e chimerica cassa integrazione. Senza dimenticare Paola Pisano, più invisibile della sua app Immuni. Quindi, ci vorrebbe un bel rimpastone. Magari tirando dentro il vecchio Silvio. Dopo aver ottenuto la norma anti-francesi per Mediaset, adesso Berlusconi punta a incassare l’ultimo dividendo politico: il ruolo di padre della patria. Matteo Renzi, all’idea di un nuovo esecutivo, si frega le mani. Freme anche Goffredo Bettini, consigliori del segretario Pd, Nicola Zingaretti. E Dario Franceschini, ministro della Cultura, vorrebbe addirittura spodestare il premier. La freddezza tra i due è siberiana: il navigato Dario reputa ormai Giuseppi un egocentrico dilettante.

Insomma i più acerrimi nemici del sovrano di Palazzo Chigi sono i capi delegazione degli alleati al governo: Di Maio e Franceschini. E se nei mesi scorsi Conte aveva beneficiato dell’inevitabile «stringiamoci a coorte» nazionale, adesso gli sterili rimedi sanitari ed economici ne hanno offuscato l’immagine. Fallito il «piano di resilienza» alla crisi, resta l’ultimo progetto di arrocco: rimanere a Palazzo Chigi, a dispetto di qualsiasi avversità. Mancano 259 giorni al prossimo 3 agosto, quando comincerà il semestre bianco che precede l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Arrivati a quel punto, nessuno potrebbe sciogliere le Camere. E l’avvocato di Volturara Appula sarebbe salvo fino al termine della legislatura, entrando per di più nella storia parlamentare per la longevità del suo potere. Conte come l’Ercolino sempre in piedi: il misirizzi che la Galbani regalava ai fedeli clienti negli anni Sessanta, con le sembianze dell’attore Paolo Panelli.

Fino a oggi il Pd e Cinque stelle sono rimasti uniti in nome di poltronismo e indolenza. «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare» diceva il Manzoni. E gli alleati sono come don Abbondio: meditabondi e incerti. Ma otto mesi, in tempi di pandemia, sono un’era geologica. Nel frattempo, la prossima primavera, ci saranno le Amministrative. Si voterà a Bologna, Napoli, Milano, Roma e Torino. Comunque vada, per Giuseppi sarà un insuccesso. Se dovesse spuntarla l’opposizione, certo. Ma anche se a trionfare sarà il Pd. A quel punto, quale miglior occasione per liberarsi di un presidente del Consiglio filo grillino? Ci sarebbe pure un degno sostituto: David Sassoli. Il suo ruolo di presidente dell’Unione europea scade a fine 2021. E lui s’è già accreditato come eroe nazionale, chiedendo un’improbabile ma scenografica cancellazione del debito italiano. Il suo approdo a Palazzo Chigi sarebbe salutato trionfalmente dalle cancelleria europee. E, forse, persino da un suo estimatore: Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica è stato sempre un strenuo difensore del premier. Ma i suoi continui richiami all’unità nazionale lascerebbero sottendere le perplessità sui solipsismi contiani.

Anche perché Giuseppi, a dispetto dei modi cortesi e baciamano, è ormai ignorato dagli altri leader del continente. Nei summit viene snobbato. Come nell’ultimo vertice sul terrorismo e l’immigrazione convocato dal presidente francese, Emmanuel Macron. Eppure, ancora lo scorso giugno, Conte gonfiava il petto. «Da parte dei vertici delle istituzioni europee è stato riconosciuto il ruolo centrale che l’Italia ha avuto in questa emergenza: in prima linea, indicando anche agli altri la via da percorrere». Come no? Basta un confronto. Mentre l’Italia brancolava, la Germania si preparava alla seconda ondata: uno stuolo di medici di famiglia, terapie intensive quasi raddoppiate e tamponi rapidi. Al di là delle sconfortanti vanterie, la fiducia dell’Ue nei confronti dei giallorossi rasenta i minimi storici: Legge di bilancio inadeguata, debito pubblico incontrollato e allarmanti ritardi sui progetti del Recovery fund. I 209 miliardi di aiuti rischiano comunque di arrivare a fine del 2021: troppo tardi per salvare il governo dallo sfacelo. E pure l’ingloriosa fine di Donald Trump non giova a Conte. Fu proprio l’ex presidente Usa, dopo la caduta dei gialloverde, a premere per la riconferma dell’«altamente rispettato primo ministro italiano». Ma adesso The Donald non è più in cima al mondo. E ha lasciato in eredità solo quell’involontaria e inesorabile storpiatura: «Giuseppi». Oltre che l’imbarazzo di Conte, ricambiato dall’indifferenza, verso il successore alla Casa Bianca: Joe Biden.

Per sopravvivere alle nefaste congiunzioni, il nostro premier è pronto a esasperare la sua più indubitabile qualità: il camaleontismo. Il manifesto elettorale è già stato consegnato ai posteri, durante gli Stati generali dei Cinque stelle: «Nella vita politica ci si imbatte spesso nel dilemma tra coerenza delle proprie idee e possibilità di cambiare opinione. È un dilemma mal posto. La coerenza è sicuramente un valore, ma quando governi devi valutare la complessità. Se la coerenza delle stesse idee fa male al paese, si ha il coraggio e l’obbligo morale di cambiarle. La prova del nove è spiegare perché il cambiare idea è una cosa giusta». È l’elogio del compromesso. L’inno al trasformismo. La disperata voglia di rimirarsi ancora negli specchi di Palazzo Chigi. Ma il Re (Sola) ormai è nudo.

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