All’indomani del voto del popolo britannico in favore della Brexit — era il 23 giugno di quattro anni fa — una delle principali preoccupazioni della diplomazia italiana era il venire meno, nelle sedi europee, di un alleato fondamentale per contrastare Francia e Germania.
Nonostante quell’ampia dose di autonomia garantita da quello che era il suo status come membro dell’Unione europea ma non dell’Eurozona, infatti, il Regno Unito rappresentava il polo settentrionale di un asse Nord-Sud che spesso si è contrapposto al centro francotedesco. In particolare sui temi economici.
Un asse che sembra essersi riproposto negli ultimi giorni sul tema del 5G e, in particolare, dopo il lento riavvicinamento del Regno Unito e dell’Italia alla politica statunitense. Tanto a quella del presidente Donald Trump, che usa le preoccupazioni di sicurezza nazionale come strumento della sua guerra commerciale con la Cina, quanto a quella degli apparati militari e d’intelligence a stelle e strisce, che vedono nei rischi per la sicurezza nazionale e nella guerra commerciale due dei molti teatri dell’ampio conflitto con la Cina.
Il dietrofront britannico sull’apertura a Huawei ha del clamoroso. Soltanto a inizio anno, infatti, il governo guidato dal premier conservatore Boris Johnson aveva permesso al colosso cinese di partecipare alla realizzazione della parte non-core dell’infrastruttura 5G del Paese, non oltre però il 35 per cento delle componenti. Ma dopo le pressioni della sua maggioranza ma anche dell’opposizione, oltreché dell’élite della sicurezza britannica e statunitense, Londra ha deciso di escludere Huawei a seguito di un’indagine d’emergenza commissionata al National cyber security centre (Ncsc), la struttura per la sicurezza informatica all’interno dell’agenzia per l’intelligence delle comunicazioni.
La svolta decisa dal premier Johnson segna la fine di quella che era stata definita «l’età dell’oro» delle relazioni diplomatiche, economiche e politiche tra Regno Unito e Cina. I grandi sconfitti sono l’ex premier conservatore David Cameron e George Osborne, il cancelliere dello Scacchiere (cioè il ministro del Tesoro di Sua Maestà) nei suoi sei anni al numero 10 di Downing Street, fidato consigliere nonché ottimo amico. Se i due conservano ancora oggi ottimi rapporti con il Dragone, lo stesso non si può dire della politica britannica. Il coronavirus sembra essere stato l’elemento decisivo nella ristrutturazione di una relazione che secondo diversi deputati conservatori (ma anche secondo molti donatori dello partito del premier Johnson) si era spinta troppo in là.
Come il Regno Unito, l’Italia sembra attraversare un periodo di ripensamenti sulla Cina dopo essere stata sedotta (unico Paese membro del G7) dalla Via della seta. I fattori sono diversi. Primo: le conseguenze sanitarie, economiche ma anche politiche (basti pensare all’immagine danneggiata della Cina) del coronavirus. Secondo: le difficoltà economiche che stanno costringendo Pechino a occuparsi prima dei temi interni costringendola a rinviare (se non addirittura rinunciare) al grande progetto infrastrutturale egemonico rilanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping sotto il nome della Via della seta. Terzo: l’urgenza di una scelta sul 5G, che è tecnologica ma anche geopolitica.
Con la decisione di Telecom Italia (Tim) di escludere il fornitore cinese Huawei dalle gare 5G in Italia e in Brasile, Roma sembra essersi dunque riorientata sull’asse atlantico. I contrasti all’interno della maggioranza di governo sono noti: da una parte c’è il Partito democratico che con i ministri Lorenzo Guerini (Difesa) ed Enzo Amendola (Affari europei) ha rilanciato l’ipotesi di esercitare i poteri del golden power sulla fornitura di tecnologia da parte di Huawei a Tim e Windtre; dall’altra c’è un’ampia fetta del Movimento 5 stelle che, guidata dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, non intende escludere i fornitori cinesi dalla rete 5G.
Abbiamo parlato di ampia fetta perché non tutto il mondo pentastellato è sulla linea del titolare del Mise. Basti pensare che il rapporto con cui il Copasir a dicembre aveva suonato l’allarme sicurezza per Huawei (quanto per l’altro fornitore cinese Zte) era stato approvato all’unanimità. Cioè anche con il favore dei membri pentastellati del Comitato: Antonio Zennaro (da alcuni mesi passato al Misto), Franco Castiello e Federica Dieni.
Elemento non secondario è il riallineamento atlantico di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, che nel marzo 2019 era (predecessore di Patuanelli al Mise) tra i più sorridenti alla firma del Memorandum d’intesa tra Italia e Cina sulla Via della seta. Oggi l’ex capo politico del Movimento 5 stelle sembra deciso a intraprendere una strada piuttosto indipendente rispetto alle posizioni originarie della creatura di Beppe Grillo ben sapendo che, come notato dalla Stampa, per arrivare a Washington «si deve passare anche dalle grandi partecipate di Stato come Leonardo, che da anni collabora con gli Stati Uniti nel settore della Difesa». «È stato Di Maio il primo ad avvicinare il Movimento agli Usa e a sgonfiare le fascinazioni russe», continua il giornale torinese. «Non una parola è stata spesa contro la proroga per altri sei mesi delle sanzioni europee a Mosca, decisa una settimana fa a Bruxelles. Non manca occasione, invece, per rinnovare la centralità dell’Italia nel Patto atlantico e l’amicizia con “il nostro principale alleato, gli Usa”». Ma oltre l’Atlantico, «si aspettano che alle parole seguano “prove d’amore”, come sul dossier per estromettere le cinesi Huawei e Zte dallo sviluppo del 5G», scrive La Stampa sottolineando come il tema sia stato «affrontato più volte nel corso delle frequenti visite» del ministro degli Esteri «all’ambasciatore americano a Roma, Lewis Eisenberg» (l’ultima martedì scorso).
Roma e Londra sembrano pronte a scommettere sui colossi europei del 5G, cioè la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Lo stesso sembra disposta a fare Parigi, con l’Agenzia nazionale francese per la sicurezza dei sistemi informatici (Anssi) che ha deciso di non vietare Huawei, incoraggiano però le aziende a non usarlo (lo pubblica Orange ha già scelto Ericsson).
Proprio la mossa di Parigi sembra segnare una spaccatura nell’asse francotedesco. Infatti, su impulso della cancelliera Angela Merkel, la Germania è decisa a rafforzare i suoi rapporti con la Cina: recentemente il quotidiano tedesco Handelsblatt ha rivelato che Deutsche Telekom — di cui Berlino ha una quota del 14,5 per cento — è diventata, ignorando gli avvenimenti statunitensi, «sempre più dipendente» dalla Cina grazie anche agli sforzi della cancelliera per contrastare qualsiasi tipo di sforzo parlamentare per bloccare i fornitori cinesi.
E molti oltre Atlantico sono pronti a scommettere che con l’Italia (di nuovo) al fianco degli Stati Uniti nella contesa del 5G, alla Germania non rimarrà altra scelta che rinunciare ai suoi progetti per inaugurare la sua «età dell’oro» con la Cina.
