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Taranto: il cantiere mai partito

Taranto: il cantiere mai partito

Oltre al rilancio di ArcelorMittal, sempre più problematico, restano sulla carta (con magri finanziamenti) i progetti del Piano Sud 2030 per una città «decarbonizzata».


Se davvero Taranto fosse un cantiere, l’immagine sarebbe quella di un’assenza di operai, con i cartelli d’inizio lavori affissi all’ingresso. Il cantiere Taranto, presentato a dicembre da Giuseppe Conte, è una promessa, una delle tante lanciate nell’«iperspazio» mediatico e lasciate in sospeso. Così come in sospeso è il destino dell’ex Ilva. La prova di forza con ArcelorMittal non ha funzionato granché. E la situazione è lontana dall’essere risolta: il futuro di migliaia di lavoratori resta incerto.

Anzi, nelle prossime settimane si apre una nuova fase, piena di incognite. Il motivo? Mentre Conte esultava per la ripartizione del Recovery Fund in Europa, con la standing ovation della maggioranza, la trattativa con i partner dell’Ue portava al corposo taglio di un altro strumento di sostegno all’economia: il Just Transition Fund, su cui Palazzo Chigi aveva puntato proprio per il rilancio della città di Taranto. Sventolando il vessillo della «decarbonizzazione», altra parola-chiave governativa quando si parla di siderurgia nella città pugliese.

«Il rilancio dell’ex Ilva, in un’ottica di sviluppo verde e sostenibile, è la battaglia che deve essere combattuta e vinta» si legge in uno dei passaggi del Piano Sud 2030 illustrato in pompa magna a febbraio dal presidente del Consiglio e dal ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, altra figura centrale per il dossier. «Occorre portare a compimento il dialogo» prosegue il testo «già avviato con le istituzioni comunitarie per l’utilizzo dei fondi europei per gli scopi della riconversione ambientale e industriale. Il riferimento è principalmente al Just Transition Fund, il cui impiego, da estendere anche all’ambito siderurgico, rappresenta un’occasione storica e probabilmente irripetibile».

Ebbene, inizialmente il fondo ammontava a 30 miliardi di euro: la «trionfale» mediazione dei giorni scorsi lo ha ridotto di due terzi. Ora ci sono sul tavolo 10 miliardi di euro. Si restringe così il margine di spesa. «Le risorse inizialmente programmate per il Just Transition Fund sono state ridotte. È vero» ammettono dalla Presidenza del Consiglio, rispondendo a Panorama. «Ma sono cresciute, e di molto, le risorse complessivamente stanziate a favore dell’Italia nell’ambito del Recovery and Transition Fund. Questo ci consentirà di finanziare il progetto di transizione energetica che il governo vuole perseguire per lo stabilimento ex-Ilva di Taranto e tutte le connesse iniziative di tutela ambientale».

Ma dalle parole ai fatti, ce ne passa. Anche la riconversione degli altiforni in forni elettrici, pensata dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, è un progetto immaginifico, almeno per Taranto. «Serve una prospettiva di 15-20 anni e bisogna affrontare varie questioni. Prima di tutto occorre valutare la transizione occupazionale» spiega Gianni Venturi della Fiom-Cgil, delegato al settore siderurgia. Un esempio? La produzione di un milione di tonnellate di acciaio, con il ciclo integrale, richiede mille addetti. Con il forno elettrico ne bastano la metà. E ancora sul fabbisogno energetico: «Per una tonnellata di acciaio con il ciclo integrale» sottolinea Venturi «servono in media 100 chilowatt, con il forno elettrico oltre il triplo. Con l’idrogeno addirittura 4,5 megawatt, 45 volte di più rispetto a quello attuale».

Delle tante ipotesi di investimenti, l’unica certezza sono i fondi a disposizione, non ancora spesi, relativi al Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), stipulato nel dicembre 2015. Nel tempo sono stati individuati 40 progetti, tra cui gli interventi al quartiere Tamburi (il più esposto allo stabilimento siderurgico), il nuovo ospedale San Cataldo, il recupero di edifici storici e della Città vecchia. In totale, a disposizione, c’è oltre un miliardo di euro.

Peccato che, riferisce Invitalia, gli interventi conclusi siano 10 per un totale di 92 milioni. Gli altri 900? Sospesi tra iniziative in realizzazione, altre in progettazione e alcuni in riprogrammazione. Intanto si susseguono gli incontri, 52 negli ultimi mesi (riferisce Palazzo Chigi), tra governo e istituzioni locali, senza uno sbocco. L’immobilismo provoca più di qualche mal di pancia in Parlamento, soprattutto tra i senatori pugliesi dello stesso Movimento 5 stelle. Ma per Conte «il Contratto istituzionale di sviluppo è in corso di attuazione con una rapidità e un’efficacia sconosciute in passato». Tanto da ringraziare pubblicamente ministri e istituzioni competenti in materia.

Del resto proprio il premier, durante la visita in città nelle festività natalizie, aveva garantito: «Lo Stato ci metterà la faccia». Lodevole, certo. Il rischio è di perderla, però. Anche perché l’annuncio del cantiere Taranto partito da Palazzo Chigi aveva come cardine il progetto di un decreto apposito. La bozza era anche stata diffusa, alimentando l’illusione di un intervento di emergenza. Il provvedimento includeva tante misure sull’ex Ilva, come una serie di interventi per la città: dai contributi per la valorizzazione dell’identità culturale alla riqualificazione urgente di quattro Comuni dell’area di crisi (Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte). Solo che, come per tanti annunci fatti, c’è stato il duro impatto con la realtà: l’assenza di risorse economiche.

A gennaio l’esecutivo aveva garantito che il decreto era in dirittura di arrivo. A febbraio, il sottosegretario Mario Turco, cui Conte ha demandato il dossier, prometteva: «Il decreto conterrà cose concrete. Entro la settimana potrebbe approdare in riunione a Palazzo Chigi». Sono trascorsi sei mesi, non si sa a quale settimana si riferisse Turco. Anche in questo caso Conte deve indossare i panni dell’avvocato difensore: «Abbiamo adottato varie misure che riguardano questo cantiere anticipandole nella Legge di bilancio, come per la zona franca doganale, o nel decreto rilancio, come per la riqualificazione dell’ospedale militare, per l’accelerazione della linea ferroviaria Taranto-Battipaglia, per il piano di acquisto di bus elettrici».

Senza decreto il cantiere Taranto è stato annacquato in varie parti, confluito per lo più in un nuovo libro dei sogni: il piano Sud 2030. A Taranto, oltre l’ex Ilva, è stato riservato un apposito riquadro del documento. Conte e Provenzano hanno messo nero su bianco la necessità di un «finanziamento con 55 milioni della Zona Franca Urbana di Taranto, finalizzata a garantire significativi incentivi fiscali ai professionisti e alle piccole e medie imprese».

C’è poi tutto il capitolo della Zona economica speciale (Zes), che dovrebbe stimolare investimenti sul territorio puntando sugli sgravi e sullo snellimento delle procedure burocratiche. Così, nel piano mirabolante c’è «il completamento delle infrastrutture dell’”ultimo miglio”, cioè una sostanziale accelerazione (burocratica e finanziaria) degli interventi infrastrutturali in area Zes» e figura poi «la realizzazione di infrastrutture “verdi” finalizzate al turismo e alla mobilità “dolce” non motorizzata (greenways) su linee ferroviarie dismesse».

Belle intenzioni, che però sembrano solo allontanare l’orizzonte di un vero intervento. Così, dopo anni in cui la magistratura ha scavalcato la politica in un vortice di decreti e promesse mancate, Taranto è piombata «nell’incattivimento del clima sociale e in una crisi industriale quasi irrecuperabile con la distruzione dell’immagine mediatica della città» spiega a Panorama Angelo Mellone, scrittore tarantino e dirigente di Rai 1, che nel suo libro Fino alla fine (Mondadori, 2019) lega il destino di quattro amici all’impianto siderurgico.

I tarantini, del resto, sono abituati a vedere evaporare le promesse: nel 2016 il governo Renzi aveva introdotto lo stanziamento di 50 milioni di euro per rafforzare la sanità del territorio. Fondi stritolati dai battibecchi tra Matteo Renzi e il suo acerrimo nemico, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. «Qui non è stato fatto nulla. C’è una classe politica, a tutti i livelli, inadeguata alla storia della città» afferma Massimo Castellana, portavoce dell’associazione Genitori tarantini. «Circa sei settimane fa abbiamo scritto al presidente Conte per avere chiarimenti sul diritto alla salute nella nostra città. Non abbiamo mai ricevuto risposta». E chi vive qui non si fa illusioni. «I cittadini si sono rimboccati le maniche e hanno tirato fuori dal cassetto i loro sogni» spiega Castellana, «ma molti giovani stanno lasciando la città, sempre più vecchia e più malata. Non ascoltano nemmeno le promesse fatte dal governo e dalla Regione».

La città è attesa da una serie di sfide, che al momento non vedono la politica andare nella giusta direzione. «Taranto da qui al 2026, quando ospiterà i giochi del Mediterraneo, si gioca la partita della vita o della morte» evidenzia ancora Mellone. «Accanto al turismo, alla cultura, all’agroalimentare e alle prospettive di green economy deve trovare spazio la produzione sostenibile dell’acciaio. Una filiera della manifattura che trasformi l’acciaio tarantino in prodotti finiti. Per non dimenticare la gigantesca scommessa del porto, che potrebbe essere il più grande del Mediterraneo». Insomma, una visione per far partire davvero un cantiere Taranto. E non limitarsi all’annuncio.

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