Dopo la batosta elettorale il Partito democratico doveva rifondare tutto, ritrovare la sintonia con il suo popolo e, finalmente, fare «una cosa di sinistra». Risultato: è partita subito una corsa più affollata che mai alla successione di Enrico Letta. Tra velleità di ex ministre, slogan di furbi sindaci e pirotecnici governatori. Con qualcuno che vuole approfittarne. Auguri.
E’ il leader dei Giovani turchi, ma parla come un Vecchio profeta: «Andando avanti così, un paio al giorno, in due mesi avremo 60 candidati…» butta lì Matteo Orfini, indomito capo corrente del Pd. Sembrava una battutona. È diventato un vaticino. Attorno alla carcassa dei democratici, reduci da uno dei peggiori risultati della storia, aleggiano improbabili successori. Tra cui lo stesso Orfini, ovviamente.
Enrico Letta, dal giorno della batosta elettorale, è dimissionario. La surreale transitorietà andrà avanti fino a primavera. Solo allora verrà celebrato il congressone per eleggere il sedicesimo, ove sedicesimo non è un refuso, segretario del Pd. In appena 10 anni. Per carità: la guerriglia nel trionfante centrodestra, innescata dalla decomposizione forzista, è da manuale psichiatrico. Ma il Pd, se possibile, riesce a far peggio. Non male anche il Terzo polo, che rischia già di frantumarsi per le rivalità tra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Mentre i Cinque stelle brigano per dare il colpo di grazia ai vecchi alleati.
Sventurato erede dell’eterno Zio Gianni, ancora impegnato a dirimere le beghe del Cavaliere, il Nipotissimo è un veterano della politica. Dovrebbe sapere che il lampo di Giulio Andreotti non è un’aforisma, ma una legge: «Il potere logora chi non ce l’ha». Nel caso del suo Pd, siamo al patologico. Si moltiplicano le correnti, più rissose che mai. Persino le scalpitanti piddine si sfidano come pistoleri all’alba nella brughiera. Idee, identità, coalizioni. Niente di niente. Crisi nera. La peggiore di sempre. Nel «campo largo» che sognava Letta fioriscono solo crisantemi. Allegri, compagni. Hanno appena cominciato a scaramucciare. Vi attende un semestre di aperte ostilità, fino a nuovo segretario.
Ammesso che, nel frattempo, il Pd non venga del tutto seppellito. Il partito che doveva diventare colorato «come un quadro di Van Gogh» è finito a emulare il pittore olandese, che si mozzò un orecchio al colmo della disperazione. Tafazzismo puro. A partire dalla votazione per il presidente del Senato: Ignazio La Russa. Alla prima chiama in aula, mentre Forza Italia si sfila, arriva il soccorso rosso. Diagnosi del televirologo Andrea Crisanti, neo senatore dem: «I voti sono arrivati anche dal Pd».
La più furente è Elly Schlein: «Vergognoso! Hanno aiutato la destra, come i 101 che tradirono Prodi». Appena eletta pure lei, è il nuovissimo che avanza. Il solito Renzi dileggia: se lei diventa segretaria del Pd, mezzo partito si iscrive a Italia viva. «E sono stato prudente…». D’altronde, si detestano. Tanto che lei, nel 2015, lascia i democratici per le presunte pulsioni destrorse dell’allora premier e segretario. Da quel momento, cambia più casacche che golfini: Possibile, Emilia-Romagna Coraggiosa, Green Italia. Fino al gran ritorno nel Pd. Non senza imbarazzi. Tanto da non volere rifare la tessera.
Elly è l’anti-Giorgia. Trasforma lo slogan meloniano in un’involuta arringa: «Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, non per questo sono meno donna». I compagni la considerano una radicalchicchissima marziana. L’Espresso le dedicò una copertina: «Il coraggio di dire No». E lì, la ruggente Elly sembra rimasta. Per ora dice sì solo alla doppia poltrona: vicepresidente dell’Emilia-Romagna e parlamentare. Ma siamo sicuri che, mentre Panorama è in stampa, vorrà riparare alla sconcezza, con la furia anticasta che la connota.
Certo, qualora il Pd volesse riacciuffare qualche voto tra il proletariato, il curriculum non aiuta. Figlia di luminari, nipote di senatore socialista, scuole in Svizzera, apprendistato politico a Chicago come volontaria di Barack Obama, bisessuale dichiaratissima, oratoria sessantottina, venerata da Arci e centri sociali, outfit conseguente, paladina ambientale, immense idee, vaghi propositi. È la vessillifera del partito Ztl. Già, ma si candida o no? Lei nicchia, sperando che le quotazioni s’impennino, grazie all’adorante stampa progressista.
Temporeggia anche l’ancor più accreditato Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna. Suo superiore, finché dimissioni non li separi. Qualcuno evoca persino un ticket per il Nazareno. Improbabile, i due mal si sopportano. Comunque sia: da mesi è lui l’erede designato. Certo, tentano di impallinarlo. Rievocano lo scomodo rapporto con Renzi. Il suo spin doctor è Marco Agnoletti, storico portavoce del leader di Italia Viva. E il guardingo governatore resta sempre il candidato preferito di Base Riformista: la corrente pullulante di ex renziani, decimata in parlamento da Letta.
Bonaccini conta anche sui sindaci: dal bergamasco Giorgio Gori al romano Roberto Gualtieri. Nella lista c’era pure Antonio Decaro, presidente dell’Anci, che potrebbe tentare la corsa solitaria. Che poi: corsa… Un eufemismo, visti i tempi congressuali. Perigliosa camminatina nel bosco, piuttosto. «A fari spenti nella notte», come cantava Battisti. Persino il primo cittadino di Pesaro, Matteo Ricci, stanco di «pacche sulle spalle», vuole però avventurarsi sulla strada della successione. Glielo avrebbero chiesto svariati amministratori del partito, si schermisce. Ma lo sterminato elenco rimane top secret. Dario Nardella, sindaco di Firenze, s’è già portato avanti. Tentando perfino di affossare le candidature femminili: «Non credo che il partito debba decidere la sua leadership come risposta al sesso del presidente del consiglio».
Un messaggio a Elly. E a Paola De Micheli, che ha bruciato i contendenti: prima candidata ufficiale. «De Micheli chi?» derubricano i finti smemorati. Così, le tocca ripresentarsi: «Ho 49 anni, un curriculum fitto e la voglia di spendermi in qualcosa di importante». I colleghi non la prendono sul serio. «La mia candidatura è vera, ma provano a silenziarla». Soprattutto le donne. «C’è misoginia nel partito» lamenta lei. Capito l’ambientino? Ma se i suoi fingono di non conoscerla, «quando vado a correre o al supermercato le persone mi dicono “Non mollare!”» racconta l’ex ministra delle Infrastrutture. «Si complimentano per il coraggio. Mai una donna si era candidata a guidare il Pd». Del resto, non era questo l’intendimento del Nipotissimo? «Spero di lasciare il testimone a una donna». Si riferiva a Paoletta? Improbabile. È stata lettiana, vero. Ma pure renziana, franceschiniana, zingarettiana. L’esule parigino evocava Elly, magari. Per l’oriunda elvetica, rischia però di diventare il bacio della morte.
Attesa estenuante, comunque. Repubblica, per ingannare il tempo che ci separa dal congressone, apre allora un costruttivo dibattito. Quale sarà il futuro del Pd? E il pensiero corre subito al cineforum fantozziano, dopo la visione della Corazzata Potëmkin. Goffredo Bettini, inconsolabile giallorosso, fiuta il trappolone: «Non facciamo scegliere il nuovo segretario a salotti e gruppi editoriali» Carlo De Benedetti, l’ex editore del quotidiano della gauche caviar, s’è già buttato nella mischia: «Bisogna sciogliere il Pd», intima la tessera numero uno del partito. Il rischio c’è. Come in un film di Nanni Moretti, l’elettore medio supplica di udire almeno «una cosa di sinistra». Impresa erculea, però. I politologi assicurano: gli operai votano ormai a destra. Trogloditi: pensano alle bollette rincarate, piuttosto che ai diritti civili. Elly, inneggiando al Ddl Zan, ribalterà le loro misere prospettive? Il Pd, confermano i flussi elettorali, è il partito delle élite e della tecnocrazia. E adesso, deposta l’impalpabile «Agenda Draghi» nel cassetto, che si fa?
I pierini centristi c’inzuppano il pane. Non che il Terzo polo sia messo meglio, eh… Sul cantiere per edificare un partito macroniano campeggia già il cartello: «Torno subito». Renzi non ha nessuna voglia di fare il numero due di Calenda. Aver puntellato la maggioranza per il voto su La Russa era un’ipotesi. Due settimane dopo, s’è tramutata in certezza. Matteo marca distanza. Si guarda intorno. Fiuta l’aria. È pronto all’ennesima zompata, vista la deriva berlusconiana. Non ha fatto nemmeno lo sforzo di salire al Quirinale per le consultazioni. È tornato alle remuneratissime conferenze in giro per il mondo, lasciando le beghe romane all’egotico Carletto. Che si lagna per la famelicità con cui Pd e Cinque stelle si sono spartiti le cadreghe destinate ai perdenti.
Non vanno d’accordo su nulla: dal Reddito di cittadinanza all’intervento in Ucraina. Sulle poltrone, però, hanno trovato un proficuo compromesso. A spese dei furenti terzopolisti. Possono consolarsi per l’estemporaneità del patto. Deposte le terga, riprenderanno le ostilità. Giuseppe Conte, il leader pentastellato, sembrava morto ed è risorto. Rimira compiaciuto la prateria che ha davanti. L’ex premier in pochette è rinato arcipopulista. Giuseppón, come Mélenchon in Francia, vuole conquistare la sinistra. I grillini davanti ai dem. Fino a due mesi fa, sembrava fantascienza. Ora, invece, il sorpasso è imminente. Il pifferaio di Volturara Appula non ha stregato solo gli elettori del Sud, zufolando di sussidi e assegni. Tanti dem vorrebbero consegnarsi nelle sue mani, senza opporre resistenza. Dietro le quinte, a muovere i fili, ci sono i più furbi della compagnia: l’inconsolabile Bettini e il diabolico Massimo D’Alema. La supremazia grillina sarà sancita, in questo autunno caldo, nelle piazze roventi. Il malcontento per guerra e bollette continua a crescere.
Il confronto sarà impietoso. Da una parte: il dimissionario Enrichetto, con gli «occhi della tigre» ormai inumiditi. Dall’altra: Giuseppón, cinto da sindacati e artisti, che arringa la folla con quel fraseggio da azzeccagarbugli, tortuoso ma ruspante. E tra manifestazioni e cortei, si fanno largo anche nuovi pretendenti alla segreteria del Pd. Come Don Vincenzo De Luca. Il governatore campano organizza il prossimo 28 ottobre una marcia per la pace, che ha già fatto litigare tutti. Serve a lanciare la sua candidatura, assicurano gli avversari. Lui abbozza: «Non mettiamo limiti alla provvidenza…». Traduzione: il solito «lanciafiamme», che minacciava di usare durante la pandemia, è pronto a incenerire quel che resta del Pd.