Per garantire la tenuta sociale occorre fare tesoro della lezione del 2009, quando il fattore tempo fu abbattuto. Per poi ricominciare.
La crisi del Covid-19 sta mettendo sotto pressione tutte le economie mondiali. Le caratteristiche assunte dal virus sono così particolari che dappertutto vi è un sostanziale generale arresto di tutte le attività produttive. Ed è difficile per il momento capire quando e come esse potranno riprendere.
Ormai vi è unanime consenso che il primo semestre del 2020 vedrà un crollo del Pil in tutti i Paesi industrializzati. La pandemia si configura come un avvenimento di portata storica che muterà alcune delle caratteristiche dei nostri sistemi economici e sociali. Il 29 marzo, giustamente, un articolo del Financial Times («Il virus mette il capitalismo responsabile alla prova») richiamava il capitalismo (o meglio i capitalisti!) alle loro responsabilità anche per salvare un sistema che è messo fortemente in discussione.
Sarà certamente un dibattito che animerà le prossime settimane e i prossimi mesi. Nel frattempo, come non si può morire di Covid-19 neppure possiamo morire di fame e alimentare una povertà che in Italia abbiamo evitato nel periodo della recessione iniziata nel 2009 con interventi mirati e il finanziamento senza nessun limite del sistema di ammortizzatori sociali.
Allora era importante salvare il legame tra impresa e lavoratore, garantire che nessuno perdesse il lavoro. Lo slogan che fu coniato dall’Italia, che presiedeva anche il G20, fu People First! (la persona anzitutto). Le risorse immesse nel sistema furono massicce. Il nostro sistema di cassa integrazione fu preso ad esempio nei consessi internazionali (al pari del sistema tedesco di Kurzarbeit).
Ecco perché assume grande importanza la strategia che l’Italia perseguirà in queste settimane per evitare che si perda il lavoro, che si perda reddito, che si impoveriscano le famiglie. Non vi è dubbio che siamo in una situazione molto differente e che il cosiddetto lockdown ha sostanzialmente «ibernato» l’economia italiana, azzerando (o quasi) in un giorno, tutta l’economia irregolare. Il che significa il conseguente crollo di una buona parte del Sud in Italia (dove la percentuale di economia sommersa supera il 20%) e la mancanza di un secondo reddito per molte famiglie.
Lasciando da parte le analisi economiche e sociologiche sul ritardo del Mezzogiorno e sulle responsabilità che ha la politica su questo modello di sviluppo (e sui perversi legami tra assistenzialismo e politica), è indubbio che un trauma di questa natura sta determinando un rapido e immediato impoverimento di tantissime famiglie. Se a questo si aggiunge il ritardo che si accumulando per la fornitura alle imprese di liquidità, che serve al pagamento degli ammortizzatori sociali, è evidente che la situazione diviene insostenibile anche per una società italiana che presenta una forte resilienza agli choc esterni.
E nascono le preoccupazioni sulla tenuta sociale. In queste condizioni, la strategia di contrasto a questi fenomeni deve essere molto semplice e fare affidamento sugli strumenti già esistenti, rafforzandoli ed estendendoli. In Italia, così come negli altri Paesi, non si parte da zero. È sufficiente fare tesoro della lezione del 2009 e da lì ricominciare. Ciò significa anzitutto estendere quanto più possibile a tutte le categorie di lavoratori la cassa integrazione (nelle sue varie configurazioni, ordinaria, straordinaria, in deroga), anche rafforzandola nel suo ammontare, e l’indennità di disoccupazione (eventualmente allungandone la durata).
Ma significa anche prevedere un sostegno al reddito per tutte le fattispecie di lavoratori autonomi, che oggi soffrono in maniera più pesante dal fermo delle attività produttive. Poi bisogna sviluppare un intervento per le categorie oggi più bisognose (che non è solo la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza, ma anche quelle degli anziani con pensioni basse oppure le famiglie che avevano un secondo reddito irregolare).
Il tempo è il fattore determinante del successo di questa strategia di emergenza. Se non si interviene in rapidità, semplificando ogni passaggio amministrativo, il suo fallimento è quasi certo e le conseguenze possono essere drammatiche. Occorre responsabilità e coraggio da parte di tutti: governo centrale, amministrazioni locali, banche, imprese, sindacato.
Nel 2009, in presenza di una crisi altrettanto grave ma meno drammatica, il fattore tempo fu abbattuto, la responsabilità fu comune e la società italiana tenne, senza nessun impoverimento. Lo stesso occorre fare adesso, con un ammontare di risorse ben più robusto. Certamente, questo non è il tempo di riforme strutturali del welfare italiano. E non è neppure il tempo delle recriminazioni, ma è indubbio che alcune scelte fatte in questo ultimo biennio nelle politiche del lavoro e nelle politiche di contrasto alla povertà non aiutano a superare questa crisi, anzi è possibile che l’abbiano acuita o non ci abbiamo messo nelle condizioni ottimali per affrontarla.
E su questo bisognerà riflettere perché se avessimo avuto una vera politica di lotta alla povertà o un sistema di ammortizzatori sociali più articolato e differenziato non saremmo costretti a rincorrere gli eventi. E in ogni caso, in questa straordinaria condizione, a differenza del 2009, bisognerà salvare le imprese oltre al legame tra lavoratori e imprese, perché altrimenti occorrerà curare nei prossimi mesi una massa di disoccupati.
