Gli attacchi dell’ex consigliere John Bolton. Gli anti-trumpisti del Lincoln Project che danno l’endorsement a Joe Biden. Le cautele di Mike Pompeo. Panorama ha tracciato una mappa ragionata dei repubblicani, le cui divisioni ricordano quelle della Democrazia cristiana.
L’uscita del nuovo libro di John Bolton è un attacco in piena regola contro Donald Trump. Un attacco che torna a mettere in luce un antico problema: quello dei rapporti che l’attuale presidente americano intrattiene con il Partito repubblicano. Rapporti che, in questi anni, si sono rivelati spesso tortuosi. Anche perché l’elefantino non è certo un monolite al suo interno, ma – storicamente – risulta diviso in varie aree e correnti, spesso in competizione reciproca. È pur vero che, rispetto al 2016, oggi il partito abbia raggiunto un discreto grado di coesione attorno a Trump, laddove – sul fronte opposto – i democratici si ritrovano dilaniati da lotte intestine tra centro e sinistra. Ciononostante, la geografia politica dell’elefante continua a presentarsi profondamente articolata. E, sulla figura di Trump, si rilevano delle correnti con posizioni differenti e – a tratti – contrastanti.
Gli alleati di ferro
Cominciamo dai repubblicani che risultano maggiormente vicini all’attuale presidente. In seno all’amministrazione, un posto di assoluto rilievo è occupato dal ministro della Giustizia, William Barr, che – almeno finora – ha mostrato di condividere quasi sempre la linea politica di Trump su numerose questioni dirimenti: dall’immigrazione alla riforma della polizia, passando per la contro-inchiesta sul caso Russiagate. Barr, probabilmente anche più di Mike Pompeo, mostra una profonda sintonia – personale e politica – con l’inquilino della Casa Bianca. E, in particolare, risulta forse uno dei suoi alleati politici più solidamente preparati: non dimentichiamo che, oltre ad essere un giurista di fama, era stato già alla guida del Dipartimento di Giustizia dal 1991 al 1993 (ai tempi di George H. W. Bush). Un altro uomo fidato è poi il senatore del Wisconsin, Ron Johnson, che – in qualità di presidente della commissione senatoriale per la sicurezza interna – è in prima linea nel condurre indagini parlamentari sul caso Russiagate: dossier a cui il presidente tiene molto. Trump punta a dimostrare di essere rimasto vittima di un complotto, che sarebbe stato ordito dall’amministrazione Obama. E, sotto questo aspetto, mira non soltanto a cavalcare il tema in campagna elettorale ma anche a usarlo per colpire politicamente il candidato democratico in pectore alla Casa Bianca, Joe Biden. Su una linea simile si sta del resto muovendo anche il senatore del South Carolina, Lindsey Graham. Una volta aspro nemico di Trump, col passare del tempo i due si sono progressivamente avvicinati. Per quanto le loro visioni in politica estera spesso non coincidano, è sugli affari interni che mostrano l’intesa maggiore. Graham ha sostenuto fortemente Trump nel ratificare i giudici da lui nominati (si pensi solo al controverso caso di Brett Kavanaugh nel settembre del 2018) e ha difeso strenuamente il presidente durante il processo di impeachment. Inoltre, come Johnson, anche lui è intenzionato a far luce sulle controverse origini dell’inchiesta Russiagate. Non dimentichiamo infine il nome di Rudolph Giuliani. Nel 2016, l’ex sindaco di New York svolse un ruolo fondamentale come pontiere tra Trump e alcuni pezzi riottosi dell’establishment repubblicano. Divenuto legale del presidente ai tempi del Russiagate, Giuliani si è man mano ritagliato il ruolo di parafulmine di Trump (anche in qualità di opinionista televisivo). Un ruolo che continua a mantenere, per quanto – a ben vedere – la sua figura sembri essersi parzialmente eclissata negli ultimi mesi.
Gli attendisti
La categoria degli attendisti è piuttosto interessante, perché – nei fatti – vi sono incluse quelle figure che, pur avendo mostrato in passato aperta avversione per Trump, hanno tuttavia alla fine deciso di fare buon viso a cattivo gioco, accettando (magari obtorto collo) la leadership dell’attuale presidente e scommettendo al contempo sul proprio futuro politico. Di questa compagine fanno parte personaggi come l’ex ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, il senatore della Florida Marco Rubio e il suo collega del Texas Ted Cruz. Tutti e tre (così come tanti altri), durante le primarie repubblicane del 2016, si pronunciarono nettamente contro Trump, salvo poi allinearsi dopo la sua vittoria. Gli attendisti sono una strana categoria: restano nei ranghi, uscendone soltanto raramente (e brevemente) per manifestare ogni tanto un senso di indipendenza. Pur non remando attivamente contro l’inquilino della Casa Bianca, non è comunque un mistero che – soprattutto nel corso dei primi due anni di presidenza – sperassero in cuor loro che qualche tegola cadesse sonoramente sul suo biondo capo: in particolare, c’era chi puntava su una débâcle del partito alle elezioni di metà mandato o chi sulla possibilità che il rapporto di Robert Mueller reperisse qualche prova di collusione tra Trump e i russi. Elementi che, in caso, avrebbe consentito a qualche attendista di contendere al presidente la nomination repubblicana di quest’anno (come fece Ronald Reagan ai tempi di Gerald Ford nel 1976). Ciononostante, il fatto che Trump sia uscito tutto sommato incolume dalle elezioni di metà mandato e dal caso Russiagate, ha fatto naufragare le loro speranze. E, adesso, costoro mantengono un profilo relativamente basso e guardano al contempo con interesse alle primarie del 2024. Al novero degli attendisti appartiene probabilmente anche Mike Pompeo. Qualcuno potrebbe avere da ridire sul fatto che non sia stato inserito tra gli alleati di ferro. Resta tuttavia il dubbio che l’attuale segretario di Stato (le cui idee in politica estera spesso confliggono con quelle di Trump) sia anch’egli mosso da solide ambizioni personali. E che anche lui stia in realtà facendo buon viso a cattivo gioco, guardando alle prossime primarie repubblicane: un’ipotesi, quest’ultima, rilanciata a maggio da Christian Whiton su The National Interest.
I malpancisti
Non esattamente degli avversari del presidente in tutto e per tutto, i malpancisti sono quei repubblicani critici di Trump, che tuttavia hanno finora evitato degli strappi irreversibili. Parliamo, per esempio, delle senatrici Susan Collins e Lisa Murkowski: due figure – definite dai media «repubblicane centriste» – che tendono assai spesso a distanziarsi da Trump su temi, come la sicurezza e l’immigrazione. La Murkowski, tra l’altro, votò «presente» in occasione della ratifica della nomina di Kavanaugh nel 2018. Ciononostante, durante il processo di impeachment al Senato lo scorso febbraio, entrambe hanno votato per assolvere il presidente dai due capi di imputazione, redatti dai democratici.
I nemici
Si sa: gli avversari più pericolosi Trump se li è sempre ritrovati non tra i democratici ma tra i repubblicani. E, per quanto il movimento dei Never Trump abbia perso smalto e peso politico rispetto a quattro anni fa, esiste comunque ancora un mondo repubblicano che si muove contro l’attuale presidente. Un mondo che trova il proprio perno principale in George W. Bush, esponente di una dinastia che non ha mai amato l’attuale presidente: un Trump che, nel 2016, criticò a più riprese l’ex presidente repubblicano per aver invaso l’Iraq. Non sarà del resto un caso che quasi tutti i principali repubblicani anti-Trump siano in qualche modo collegati a George W. Bush. Prendiamo John Bolton: l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump (silurato a settembre scorso) era stato ambasciatore all’Onu nell’amministrazione di Bush jr. Stesso discorso vale per il generale Colin Powell, che – segretario di Stato durante il primo mandato di Bush – ha dato il suo endorsement a Hillary Clinton nel 2016 e a Joe Biden quest’anno. In tutto ciò, non va neppure trascurato che molti dei principali funzionari dell’amministrazione Obama legati all’inchiesta Russiagate avessero già avuto incarichi nel gabinetto di Bush: James Comey (come viceministro della Giustizia), James Clapper (come sottosegretario alla Difesa), John Brennan (come direttore del centro nazionale per il controterrorismo). Legato a Bush è anche Stuart Stevens, uno dei principali esponenti del Lincoln Project: comitato di repubblicani anti-trumpisti formato nel 2019, che – due mesi fa – ha dato il proprio endorsement a Biden.
L’ombra dei Bush
Il fatto che dei repubblicani diano il proprio appoggio a candidati democratici non deve stupire più di tanto. L’opposizione di Trump a Bush va oltre l’antipatia personale o la singola (per quanto rilevante) questione della guerra in Iraq. Alla base di tutto si scorge il consueto braccio di ferro tra l’attuale presidente e un establishment bipartisan che non condivide la sua linea (soprattutto sul fronte internazionale): del resto, è cosa nota che la politica estera dei Bush presenti numerosi tratti in comune con quella dei Clinton, a partire da una propensione per l’interventismo militare e l’esportazione dei valori statunitensi. Si tratta di una visione che cozza irrimediabilmente con la Realpolitik di stampo kissingeriano, adottata oggi dalla Casa Bianca (una Realpolitik, guarda caso, mal digerita da intellettuali neoconservatori, come Bill Kristol). È quindi in questo delicato quadro sistemico che va principalmente inserita la rivalità tra Trump e i Bush: qualcosa di ben più profondo di una semplice bega o antipatia personale.
Senza dimenticare Romney
Più problematica appare invece la figura di Mitt Romney: se quattro anni fa era tra i protagonisti del movimento Never Trump, costui ha progressivamente perso influenza, pur guadagnando comunque un seggio senatoriale nel 2018. Entrato alla camera alta, l’ex governatore del Massachusetts ha cercato di intestarsi l’obiettivo che, nei due anni precedenti, era stato di John McCain: diventare, cioè, scaltro regista di una fronda repubblicana, pronta a mettere ripetutamente a Trump i bastoni tra le ruote. Un’ambizione che è andata tuttavia in gran parte delusa, visto che – almeno per ora – Romney non è stato capace di costituire una pattuglia parlamentare di fedelissimi al Campidoglio: basti pensare che, lo scorso febbraio, è stato l’unico repubblicano a votare in favore dell’impeachment a Trump per abuso di potere. Se quindi l’«universo Bush» si sta muovendo secondo una logica, non è ancora esattamente chiaro a che cosa stia invece puntando Romney. Mira a una battaglia di mera (e sterile) testimonianza? Oppure ha una strategia politica più solida? L’ex governatore del Massachusetts non ha mai raccolto troppo apprezzamento dalla base repubblicana e, tra l’altro, sconta ancora l’onta per la sconfitta contro Obama alle presidenziali del 2012: un evento che Trump non perde mai l’occasione di rinfacciargli. Tutto questo fa di Romney un avversario scarsamente minaccioso agli occhi del presidente. Un presidente che deve tuttavia continuare a guardarsi dai Never Trump. Perché è in quel mondo che si annidano per lui le trappole più subdole e temibili.