Alitalia multata dall’Ue, soldi alla nuova Ita e pure a Ilva. Manca un piano industriale sull’acciaio per evitare che l’intera industria del metallo collassi in Italia. Stellantis ha promesso la Giga factory, ma a Roma nessuno spiega che cosa fare in caso di crisi dei microchip. Insomma, non basta estendere il golden power, servono obiettivi precisi. Altrimenti sarà solo spesa pubblica.
Dopo un numero di miliardi di euro di cui s’è oramai perso il conto e di aggiramenti continui della normativa europea sugli aiuti di Stato, Alitalia è finita. Il fiume di denaro pubblico non è servito a salvare un’azienda arretrata, inefficiente e nelle mani dei sindacati. Al suo posto il governo ha scelto di investire 1.3 miliardi di euro per dare vita a Ita, una nuova società che rimpiazzerà la compagnia di bandiera, avrà un terzo dei dipendenti rispetto ad Alitalia e coprirà un ridotto numero di tratte. La compagnia dovrebbe riuscire a mantenere nel suo comparto il marchio di Alitalia, che verrà assegnato con gara dal Mise, per poi crescere progressivamente nelle tratte e nei dipendenti fino al 2025. I nodi da sciogliere sono ancora molti, a partire dal contratto dei dipendenti e dall’adeguatezza della capitalizzazione societaria. Tuttavia, la vicenda del fallimento Alitalia è indicativa delle difficoltà che anche il governo Draghi incontra nel concepire una politica industriale per il Paese. Lo Stato nei prossimi due anni sarà destinato, ad esempio, a diventare azionista di maggioranza dell’Ilva, ma al momento non esistono piani industriali precisi. Non sappiamo se e quanto lo Stato azionista deciderà e sarà in grado di aumentare la produzione di Ilva in un momento di scarsità dell’acciaio nell’economia europea e su quali nuove tecnologie deciderà di puntare. Taranto, ma anche l’acciaieria di Piombino in mano al gruppo indiano Jsw, producono molto meno di quanto potrebbero e ciò permette ai gruppi stranieri che controllano gli stabilimenti di lucrare enormemente sugli aumenti di prezzo delle materie prime. Chi ne paga la spese però sono le industrie italiane, costrette a confrontarsi con una difficoltà inaspettata e la cui durata è difficile da pronosticare. Anche a Piombino ci sono lavoratori in mobilità nell’area logistica e pure qui lo Stato dovrebbe entrare nel capitale con Invitalia, ma i tempi e il piano industriale sono da definire e fermi da un anno.
Stellantis, invece, ha pianificato la costruzione di una giga factory per la produzione di batterie da destinare alle auto elettriche nel sito di Termoli. Si parla di un investimento nel lungo periodo sull’elettrico pari a 30 miliardi di cui la fabbrica abruzzese dovrebbe beneficiare, ma anche qui non c’è una pianificazione ancora ben definita. Tuttavia, all’investimento nella giga factory è molto probabile che corrisponda un disinvestimento nel torinese. Se l’auto elettrica è il futuro, lavoratori e indotto legati ai vecchi modelli e al motore a scoppio subiranno tagli e flessioni produttive. Una crisi appare inevitabile e lo Stato dovrà predisporre misure di welfare e riconversione. Cosa ne sarà di quelle imprese e di quei lavoratori in un sistema paese dove fare impresa è inospitale e complicato? Per convertirsi in nuove nicchie di mercato legate al green servono capitali e investimenti oltre che piani pubblici. Su questo dossier il governo Draghi non sembra aver ancora elaborato qualche idea. Da ultimo, l’esecutivo ha fatto ricorso ad un uso estensivo della golden power in questi mesi, iniziativa talvolta giustificata perché legata alla catena delle infrastrutture critiche e altre molto meno con il rischio di perturbare il mercato senza reali necessità. Il rischio di un uso troppo ampio della golden power è quello di passare da un legittimo Stato-protettore degli interessi nazionali al mero protezionismo. Con il problema di ritrovarsi in un sistema che protegge e sussidia un capitalismo pubblico e privato senza organizzazione e capacità di innovazione. Il Presidente del Consiglio aveva dichiarato di voler pensare all’economia dopo la risoluzione della pandemia con i vaccini. Quel tempo è arrivato. Lo Stato è troppo implicato, e i suoi piani industriali sono ancora troppo indefiniti, per continuare a rinviare.
