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Il collasso dei 5 Stelle

Mentre Giuseppe Conte tenta la «rigenerazione» del Movimento, esplodono le contraddizioni e si negano anche i «dogmi» come la piattaforma Rousseau. E in un’epica sfida tra ex amici, è cominciata il «si salvi chi può». Obiettivo: non perdere tutto il potere.


Quella criniera corvina, civettuolo vanto. E il ciuffetto sbarazzino, da mezzala mancata: «I capelli me li taglio da solo» si pavoneggiava Giuseppe Conte mentre, in pieno lockdown, costringeva i barbieri alla chiusura. Sono passati quattro mesi dal suo addio a Palazzo Chigi. La folta chioma comincia a ingrigirsi. Lo sguardo spavaldo s’è incupito. I celebri garbugli hanno smesso d’incantare.

Giuseppi è già la più fulgida rappresentazione dell’indelebile motto andreottiano: «Il potere logora chi non ce l’ha». Ha perso lo scettro da premier. E non riesce nemmeno a farsi incoronare reuccio dei Cinque stelle, diventati una tempesta di meteoriti impazzite. Prima il tormentato appoggio al governo di Mario Draghi convince all’addio persino Alessandro Di Battista, duro e puro ora pronto a ridar battaglia. Poi il delirante video del fondatore, Beppe Grillo, in difesa dell’ultimogenito, Ciro, accusato di stupro assieme a tre amici. Segue la decisione del Tribunale di Cagliari: commissaria il Movimento, spodestando l’eterno reggente Vito Crimi, l’«Orsacchiotto» diventato pungiball. Quindi i patemi con il Pd, recalcitrante alleato, in vista delle Amministrative. E soprattutto la guerra termonucleare con l’associazione Rousseau, che gestisce la piattaforma per le votazioni online. Davide Casaleggio, figlio del fondatore Gianroberto, si rifiuta perfino di consegnare la lista degli iscritti. E senza quella, l’investitura telematica per Conte, leader in ammollo già centrifugato dalle polemiche, può attendere.

Anche questa contesa approda in tribunale. Ricorsi e controricorsi. È la battaglia finale. Ma segna ufficialmente pure la fine della supposta morigeratezza, da sempre agitata contro i felloni tangentari della prima Repubblica. Perché l’ultima diatriba, stringi stringi, nasce dal vil danaro. Soldi e decantate restituzioni. I Cinque stelle promettono, nel lontano 2011, di accontentarsi: tremila euro al mese. Il resto delle spese va giustificato: fino all’ultimo centesimo. La cospicua eccedenza, dai rimborsi alle diarie, va restituita al popolo: previa pubblicazione online del bonifico.

Dopo anni asserragliati nei palazzi, si sono dovuti ricredere. Meglio non mettere limiti alla provvidenza. E niente più plateali esibizioni di scontrini e versamenti. Vecchie pacchianate populiste. Adesso che il M5s s’è fatto partito, basta versare allo stato maggiore grillino duemila euro: la metà, tanto per fare un esempio, di quanto chiesto dalla Lega ai suoi eletti. Il regolamento impone pure un contributo di 300 euro al mese per Rousseau. Che la maggior parte dei pentastellati ha smesso di versare da tempo. Nelle casse della piattaforma mancano 450 mila euro. Dunque, à la guerre comme à la guerre. Con Casaleggio junior che chiede addirittura ai militanti di lasciare il Movimento e iscriversi alla sua rinomata associazione.

Si consoli. Senatori e deputati non hanno smesso di versare quanto promesso solo a Rousseau, ma persino al Movimento. Ed ecco il computo, aggiornato al 20 maggio 2021 da Panorama. Come dettaglia Tirendiconto.it, nato per celebrare il francescanesimo e diventato arma contundente, i parlamentari avrebbero dovuto rendicontare almeno fino a febbraio 2021: termine già piuttosto generoso. Eppure, su 275 eletti, sono in regola solo 34: neanche il 12 per cento.

È fermo a dicembre nientemeno che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: l’ex leader che tanti ora rivorrebbero al comando, per evitare l’incoronazione dello spurio Giuseppi. Cliccando poi sul nome del «portavoce», come nel caso di Giggino, si apre una scheda su Rousseau, corredata da foto e curriculum, notevole nel caso di specie. A lato, appare l’inesorabile giudizio dell’associazione: «Non sono in regola». Stessa, inappellabile, conclusione per il presidente della Camera, Roberto Fico. Appena nominato, decide di raggiungere Montecitorio in autobus, a favor di obbiettivo, usanza poi persa al diradar dei fotografi. Pure lui evita di restituire dallo scorso dicembre.

Altro sanzionabile è Alfonso Bonafede, ex ministro della Giustizia ma soprattutto scopritore del premier: quest’anno non ha mai versato. Come Fabiana Dadone, che guida il dicastero delle Politiche giovanili e s’è già fatta notare per una dirompente posa: scarpe rosse sulla scrivania e felpa dei Nirvana. Nunzia Catalfo, fu titolare del Lavoro, si esime invece dallo scorso settembre. Fa peggio Sergio Battelli, già commesso in un negozio di animali e chitarrista della band rock ligure Red lips, di conseguenza nominato presidente della commissione per le Politiche Ue alla Camera: non versa addirittura da agosto 2020. Nemmeno il barcollante Crimi, ex capo scout, insomma uomo dall’encomiabile esempio, è in regola: l’ultima rendicontazione risale a gennaio.

Nello sterminato elenco dei riottosi spiccano però autentici fuoriclasse. Come Marianna Iorio: non contribuisce alla causa ormai dal lontano ottobre 2019. La deputata casertana, d’altronde, è uno spirito libero: «Esprimo profondo dissenso per quanto affermato da Beppe Grillo» scrive sulla sua pagina Facebook, dopo il video dell’Elevato a discolpa del figlio. Comunque, a dispetto di idiosincrasie materiali e ideologiche, Iorio resta ancora saldamente nel gruppo. In compenso, con la scusa delle mancate restituzioni, sono state cacciate frotte di non ortodossi. E si vocifera di altri clamorosi abbandoni, direzione Pd. Vedi l’ex ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, che taccia Conte di esasperato attendismo. O Stefano Patuanelli, che guida il dicastero dell’Agricoltura: attaccato da una sessantina di parlamentari per i fondi al Sud, minaccia dimissioni. Per entrambi, il richiamo delle sirene democratiche comincia a farsi irresistibile.

E poi, su gran parte dei parlamentari, incombe una tagliola: il doppio mandato. Non a caso, perorato da Rousseau. Era il vero antidoto alla poltronite che affligge la politica: due giri di giostra al massimo, poi si torna a casa. Peccato che l’ebbrezza del potere abbia ubriacato i portavoce. «Questa regola non si cambia, né esisteranno mai deroghe a essa» giurava Grillo. Invece, anche in questo caso, si prepara una clamorosa sconfessione. Giuseppi ha già chiarito: il nuovo corso, se mai arriverà, prevede «una deroga per merito». E chi deciderà queste acquisite virtù? Si manderà il curriculum, come chiedeva inizialmente il Movimento persino per fare il consigliere di circoscrizione? Insomma, sarà l’ennesimo abracadabra.

Già, hanno sconfessato tutti i dogmi assoluti. Adesso è caduto pure un altro storico totem: quello del giustizialismo. Il tintinnio di manette evocato da Grillo ha sempre eccitato gli elettori penstastellati. Di fronte ai guai giudiziari di Ciro, l’Elevato si scopre però ultragarantista. Proprio mentre gli schizzi dell’inchiesta sulla fantomatica Loggia Ungheria raggiungono Sebastiano Ardita, che nel 2017 partecipò a una convention in ricordo di Gianroberto Casaleggio, e il suo ex maestro, Piercamillo Davigo, l’eroe di Mani Pulite che i probi sognavano alla guida del ministero della Giustizia.

Sempre limitandoci alle ultimissime abiure, c’è anche il mitologico reddito di cittadinanza. «Abbiamo abolito la povertà» esultava Luigi Di Maio con le braccia al cielo dal balcone di Palazzo Chigi dopo l’approvazione del decreto, diventato vessillo della politica grillina. Difeso a spada tratta, fino alla mefitica notizia: l’addio di «Mimmo ‘o cowboy». Ovvero Mimmo Parisi: un professorone scovato in Mississipi dall’ex capo politico, mentre era ministro del Lavoro, e piazzato al vertice di Anpal, l’agenzia governativa che doveva riformare i centri per l’impiego, pietra angolare della riforma. Ebbene l’indomito italoamericano, a più di due anni dall’insediamento, alza le mani senza opporre resistenza: Anpal sarà commissariata. E lui prepara le valige per tornare negli amati States, finalmente libero di viaggiare in business class, senza incorrere nelle ire generali per le sue sontuose note spese.

Draghi, a dire il vero, s’è rapidamente sbarazzato anche di altri supereroi grillini: da Domenico Arcuri, ex commissario all’emergenza coronavirus, fino a Gennaro Vecchione, già numero uno dei servizi segreti italiani. Ed è stata proprio quest’ultima rimozione a scatenare le ire di Giuseppi: «Non dovevi farmelo» avrebbe detto durante una stizzita telefonata al successore. Altro gigantesco rospo da ingoiare. Così, si trova di fronte al malcelato imbarazzo: sostenere un presidente del consiglio che sta facendo polpette del recente passato.

Eppure, non ha alternative. Sobillato dal vecchio portavoce, Rocco Casalino, ha vagheggiato la nascita di un partito personale. Ma chi non ha il coraggio «non se lo può dare» scriveva il Manzoni. L’avvocato di Volturara Appula ha quindi ripiegato sul piano b, apparentemente più semplice: rianimare i Cinque stelle. Doveva essere un giochino da ragazzi, per uno statista come lui, abituato ad Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Invece, l’ex premier s’è rivelato quello che è sempre stato: un leader per caso. Proprio mentre Grillo, l’unico capo carismatico, berciava in video la scomposta difesa di Ciro, guadagnandosi l’unanime disapprovazione dei fedelissimi.

Dopo l’intemerata, non gli resta però che tacere. E il prosieguo potrebbe essere ancora più tribolato. Il rinvio a giudizio del figlio e la sua allegra compagnia sembra inevitabile. Seguirà il processo: tanto giudiziario quanto mediatico. Infine, la sentenza. Visti i tempi della giustizia, si andrà alle calende greche. E a quel punto, ammesso che ne abbia ancora voglia, soltanto un’eventuale assoluzione potrebbe ridargli agibilità politica.

Così Giuseppi è costretto a togliere i braccioli e tentar di nuotare nella fanghiglia pentastellata. Vagheggia la «rigenerazione». Annuncia un nuovo statuto. Invia ai giornali manifesti programmatici in puro legalese. Dovrebbe trasformare il Movimento in un partito ecologista, pronto per l’ingresso nei Verdi europei. Che non vedono l’ora di accogliere a braccia aperte gente che, fino a qualche anno fa, incontrava i gilet gialli e sobillava la rivolta. Come i gemelli diversi: Di Maio e Di Battista.

Spietata, a volte, è la vita. Due estati fa, Conte riceveva al G7 le pacche sulle spalle di Donald Trump, allora presidente degli Stati Uniti. Adesso gli tocca tentar di rabbonire Silvio Demurtas, avvocato pastore «con trenta pecore e qualche maiale», che il tribunale cagliaritano ha nominato «curatore speciale» del Movimento in seguito alla querela di una consigliera regionale espulsa. E il valente collega ora gli fa perfino maramao: «In caso di consultazioni, potrei salire al Quirinale».

Uno come Conte, che eccelleva al liceo negli studi classici, lo sa bene: «Sic transit gloria mundi». Ma stanno esagerando, che diamine. Per non parlare degli sguardi imbarazzati dei presunti alleati durante gli streaming. Alle prossime amministrative, Pd e Cinque stelle andranno quasi ovunque separati. L’ennesimo, annunciato, sfacelo. Nel 2016, però, era stato un trionfo. Il Movimento aveva conquistato Torino, con Chiara Appendino. Lei sì che sembrava aver stoffa. Invece non si potrà nemmeno ricandidare, dopo una condanna per falso in atto pubblico. Conte dunque implora: «Cerchiamo un candidato civico». Enrico Letta, segretario dei democratici, replica impietoso: «Non c’è possibilità di convergenza». Né sotto la Mole e neppure all’ombra del cupolone.

Anche a Roma, cinque anni fa, per i grillini fu un successo. Virginia Raggi, adesso, ritenta l’impresa. Tra gli sfidanti c’è però il piddino Roberto Gualtieri, ex ministro dell’Economia. Ma almeno al secondo turno potrà riunirsi l’invincibile armata giallorossa? Improbabile. Così a Conte, uno che ama il calcio e le sue metafore, non resta che buttare la palla in avanti: verso le prossime elezioni politiche, previste nella primavera 2023. Visti i suoi tempi di reazione, sembra un adeguato orizzonte temporale. Mancano due anni. Giuseppi, stavolta, saprà farsi trovar pronto. Sempre che, nel frattempo, non si avveri la fosca profezia pronunciata da Dibba: «Diventeremo come l’Udeur».

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