Dopo il «gran rifiuto» di Carlo Calenda, e mentre ogni sondaggio prevede per i dem una sconfitta epocale, il segretario del Pd Enrico Letta appare come un pugile che ha incassato troppi colpi e continua a sbagliare ogni mossa. Così è già partita la gara, sempre più caotica e autolesionista, per la sua successione.
«Sono stato un ingenuo». L’inizio della fine s’era intuito un mese fa, tra le righe di una dimessa intervista a la Stampa. A otto anni dall’«Enrico stai sereno», con cui Matteo Renzi lo rottamò mentre era a Palazzo Chigi, Letta è stato nuovamente gabbato: stavolta da Carlo Calenda, non a caso compare centrista del leader di Italia Viva. Dopo l’addio del Macron dei Parioli, che ha rifiutato l’alleanza con il Pd lasciando il segretario dem all’ultrasinistro duo Fratoianni&Bonelli, non si è più ripreso. Il filante SottiLetta è ormai una bruciacchiata CotoLetta. Dunque, attingendo ancora dalla tradizione culinaria milanese, avanza il dilemma: mangerà il panettone?
Improbabile. Per i sondaggisti, la sconfitta alle politiche del 25 settembre sarà leggendaria. Una ventina di punti percentuali sotto il centrodestra. Gli evocati «occhi della tigre» di Rocky diventano l’acquoso sguardo di un infreddolito micetto. Il «quadro di van Gogh», che doveva raffigurare il Pd, è una crosta finita in cantina. Dopo il manrovescio calendiano, Letta sembra l’ex pugile suonato Artemio Altidori, alias Vittorio Gassmann, nel film I mostri, che continua a ripetere: «E so’ contento…». Anche Enrichetto le busca da tutti. La sua mestizia ha rinvigorito perfino il Mélenchon italiano, l’emulo tricolore del leader francese dell’estrema sinistra: Giuseppe Conte, a capo dei Cinque stelle, i vecchi alleati.
Già, Letta non ne imbrocca più una. La disastrosa alleanza con massimalisti e reprobi grillini. I seggi offerti ai due ministri più improbabili e deleteri: Luigi Di Maio, funambolo della Farnesina, e Roberto Speranza, mister Lockdown. L’ossessione verso l’«onda nera» personificata da Giorgia Meloni, che rischierebbe di sommergere l’Italia. La campagna elettorale manichea. Noi, i buonissimi, dalla parte giusta. Voi, i cattivoni, da quella sbagliata. Il programma farcito delle ossessioni scaccia voti: patrimoniale, ius soli, Ddl Zan.
Epilogo già scritto. Cappottone e congressone. «Spero di lasciare il testimone a una donna» mette le mani avanti Letta. Magari all’ormai ubiqua Elly Schlein, 37enne vice presidente dell’Emilia-Romagna, verde e arcobaleno, incontrastata beniamina della stampa progressista. Nuovissima, ma pure talmente vetusta da continuare a usare «compagni e compagne». Il più accreditato alla successione sembra però il suo diretto superiore: il governatore Stefano Bonaccini. Sguardo intenso, occhiali da agente segreto, accento della Bassa, furoreggia ovunque. Non manca di ricordare che anche lui, alle regionali, era dato per perdente. Alla fine, però, ha trionfato. Sotteso: a differenza di quanto capiterà stavolta. E aggiunge: «Ora si fa il massimo per aiutare Enrico Letta».
Ovviamente, sta tutto in quell’avverbio: hic et nunc. Dopo le elezioni, invece, sotto a chi tocca. A lui. Un anno e mezzo fa si scansò malvolentieri proprio per far posto a Enrichetto. Stavolta potrebbe essere acclamato a furor di popolo. Anzi, di sindaco. Giorgio Gori da Bergamo, Dario Nardella da Firenze e Antonio Decaro da Bari sono pronti a chiedere la sua candidatura alle prossime primarie. Potrebbero convergere anche i liberal di Base Riformista, guidati dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini e decapitati di Luca Lotti, che il segretario ha deciso di non ricandidare. Comunque vada, l’agenda di Bonaccini sembra già scritta: riallacciare con gli smargiassa del terzo polo, Calenda e Renzi, nemici giurati di Letta.
Il presidente dell’Emilia-Romagna dovrebbe sfidare un capintesta della sinistra del partito: il vicesegretario Peppe Provenzano o il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, già in corsa contro Renzi per il Nazareno. Da anni vagheggiano una svolta laburista: statalista e anti imprese. Chiunque sia, il contendente sarà sostenuto da Articolo Uno, dunque Speranza e Pierluigi Bersani. E soprattutto da Goffredo Bettini, già architetto dell’alleanza giallorossa. Proprio un nuovo patto socialdemocratico con i Cinque stelle sarebbe al primo punto del programma. Dato per spacciato, l’ex premier Giuseppi s’è trasformato nel ribaldo Giuseppón, scopiazzando appunto il Mélenchon francese, che alle ultime presidenziali ha sbancato con il 22 per cento. I Cinque stelle sono in crescita. Soprattutto al Sud, dove promettono sfrenato assistenzialismo: più reddito di cittadinanza, bonus e superbonus. Nei sondaggi risalgono così al 13 per cento, cifra che non vedevano da mesi. Mentre Insieme per il futuro, del reprobo Giggino, sprofonda.
Enrichetto ha spinto per la scissione. Ma il partito con cui ha sostituito i pentastellati nella coalizione resta stabile: zero virgola qualcosa. Sfondone da matita blu, infierisce il governatore della Puglia, Michele Emiliano: «Un errore gravissimo. Nel momento in cui rompi questa alleanza, salvo miracoli, si rischia di avere un centrodestra che può addirittura cambiare la carta costituzionale». Ovvero: conquistare i due terzi dei seggi e tentare la svolta verso il presidenzialismo. Insomma: «Letta ha preso una decisione sulla base dell’emozione e poi non è più stato capace di tornare indietro». Dunque, anche Emiliano, che nella sua Puglia continua imperturbabile a governare con i pentastellati, potrebbe schierarsi dalla parte degli aspiranti laburisti: Orlando e soci.
Resta invece da capire con chi andrà l’eterno Dario Franceschini, ministro della Cultura. Ma i precedenti lasciano intuire l’epilogo: con il vincitore. CotoLetta potrebbe salvare la poltrona solo impedendo un governo di centrodestra. Qualora una cospirazione planetaria riportasse Mario Draghi a Palazzo Chigi. Il premier è il vero candidato di Letta, a sua insaputa. Il prescelto non gradisce. Tutt’al più potrebbe aspirare al Quirinale, qualora Sergio Mattarella dovesse anticipare la fine del settennato. Eppure, in assenza di migliori idee, si continua ad agitare l’ormai mitologica «Agenda Draghi». A differenza dei leader di centrodestra, il segretario Pd, nonostante sia stato premier in passato, o forse per quello, non ha mai pensato di candidarsi alla guida del paese. E l’ennesimo sondaggio ne certifica il mortificante seguito: solo il 18 per cento degli elettori dem lo vorrebbe premier.
Nemmeno le liste del Pd sono esaltanti. L’unica novità sembra la 67enne Susanna Camusso, già indomito segretario della Cgil. O il televirologo Andrea Crisanti, in ossequio alla funesta pandemia. E la moglie di Franceschini, Michela Di Biase, consigliera regionale nel Lazio. Candidatura che ha esposto il Nipotissimo ad accuse di familismo, vista pure la scontata riconferma di Piero De Luca, figliolo di Don Vincenzo, inossidabile presidente campano. Il tema appassiona. Tanto da aver causato le furibonde ire di Albino Ruberti, deposto capo di gabinetto del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Nel ruspante ambientino dem della capitale lo chiamano «er Pugile». Pronto a scatenare l’inferno dopo aver perorato a cena la ricandidatura in regione della fidanzata, Sara Battisti: «A me non me’ dicono “io me te compro”… Se devono inginocchia’ davanti… Io li sparo, li ammazzo» urlava per strada il cinematografico Albino, ripreso da un videoamatore, ai fratelli De Angelis: uno potente assicuratore e l’altro deputato dem. Del resto, a Roma l’aria è mefitica. Non solo per le scorribande democratiche, ma soprattutto per l’insopportabile olezzo. Il New York Times sintetizza con lirismo il panorama nella città simbolo del Pd: «Un serraglio di cinghiali, gabbiani violenti e ratti si riunisce per banchettare con i detriti della capitale».
Già: l’«Enrico stai sereno» stavolta è stato «ingenuo». Si ritrova in coalizione con Fratoianni, che vuole l’abolizione dei jet privati, e Speranza, nostalgico della dittatura sanitaria. Pochi voti. E tante idee che allontanano ogni indeciso. La sua perplessa effige personifica la campagna più fallimentare di sempre. O di qua. O di là. O con Putin, come la Lega del truce Matteo Salvini. O con l’Europa, come il Pd del mansueto Ruberti. O per le energie fossili, come i folli inquinatori di destra. O per le rinnovabili, come quel premier che aumentò a oltre il 40 per cento la dipendenza dell’Italia dal gas russo: Letta.
Calenda lo randella: «Allora andiamo a pedali». Renzi lo bastona: «Se fosse segretario della Nato, con la sua strategia i russi sarebbero già in Portogallo». Conte lo legna: «Basta parlare di marcia su Roma». Mentre Letta, come Altidori, ripete intontito: «E so’ contento…».
