The Ronald è stato tra i migliori inquilini della Casa Bianca, guidando la più grande potenza planetaria negli anni della Guerra fredda. Eppure è stato sottovalutato, soprattutto a causa del suo passato da attore. Come spiega a Panorama l’autore di un nuovo libro su di lui.
Doc: «Dimmi, ragazzo del futuro, chi è il presidente degli Stati Uniti nel 1985?». Marty: «Ronald Reagan». Doc: «Ronald Reagan? L’attore? Ah! E il vicepresidente chi è, Jerry Lewis? Suppongo che Marilyn Monroe sia la First Lady e John Wayne il ministro della Guerra!». Questa è una gustosa conversazione che compare in una scena di Ritorno al futuro (Back to the future), il film cult diretto da Robert Zemeckis nel 1985. Un dialogo che simboleggia alla perfezione l’autentico stupore, misto a una certa aria di sufficienza, che accolse l’ascesa di Reagan alla Casa Bianca nel 1980. Un attore di Hollywood, per giunta di seconda fila, un cowboy, alla guida della più grande superpotenza planetaria in piena Guerra fredda.
Un pericolo per il mondo, secondo alcuni. Da allora sono trascorsi parecchi anni. Un tempo necessario e sufficiente per consentire agli storici e agli scienziati della politica di giungere a una pacata e meditata valutazione del suo operato. Ebbene, Ronald Reagan è ritenuto, quasi unanimemente, tra i migliori presidenti nella storia degli Stati Uniti, «colui che ha vinto la Guerra fredda senza sparare un colpo», come dirà Margaret Thatcher. La caratterizzazione che Reagan darà a un lungo periodo della storia americana e mondiale, con la sua innovativa politica economica ed estera, diventerà un «ismo», il reaganismo appunto.
Quando, nel 1980, Jimmy Carter conclude la sua presidenza, l’inflazione è al 12,5 per cento, mentre quando andrà via Reagan, nel 1988, sarà al 4,4. La disoccupazione scende dal 7,5 al 5,4 per cento. Olivier J. Blanchard, direttore del dipartimento di Economia al Massachusetts institute of technology (Mit) e poi capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha convenuto che «le due riforme fiscali (nel 1981-1983 e nel 1986) hanno modificato profondamente il panorama. Gli investimenti sono stati protetti dagli effetti di una rigorosa politica monetaria antinflazionistica e molte distorsioni sono state ridotte».
Se oggi gli anni Ottanta sono ricordati come una stagione felice di benessere, lo si deve a quella spinta di ottimismo, di pragmatismo e di modernizzazione che Reagan seppe imprimere agli Stati Uniti e di conseguenza a tutte le nazioni industrializzate dell’Occidente. A quarant’anni dal suo insediamento alla Casa Bianca, il dibattito storiografico sulla figura di Reagan ha finito con il riconoscerne il ruolo attivo e determinante nella ricostruzione materiale e morale dell’Occidente, i successi di un’economia che ha recuperato efficienza e prosperità, i trionfi di una politica estera che ha chiuso in maniera pacifica la Guerra fredda e ridato orgoglio agli Stati Uniti, dopo la crisi di fiducia provocata dalla sconfitta in Vietnam.
Nato il 6 febbraio 1911 a Tampico, poco più di una frazione di 849 anime, talmente piccola da non avere un medico. Una sola vera strada e persino polverosa, la Main Street, dove si trova l’emporio in cui lavora il padre. Sopra c’è la loro casa. Un luogo uguale a quello di tanti altri paesi della provincia americana. In futuro, Ronald Reagan si autodefinirà un «repubblicano della Main Street», un modo per sottolineare la genuinità della sua provenienza. Il padre è un cattolico irlandese, alcolizzato, che passa da un lavoro precario all’altro, condizione che costringe la famiglia a un’estrema povertà. La madre è una donna religiosa, appartenente alla congregazione dei Discepoli di Cristo. Educa i figli all’onestà e al rispetto, e inculca loro l’importanza di studiare per affrancarsi dalla miseria. Nel 1920 la famiglia, dopo uno sfortunato tentativo di stabilirsi a Chicago, approda a Dixon, un’altra cittadina dell’Illinois. Qui i Reagan conoscono la Grande depressione, che rende il padre disoccupato e aggrava ancor più le condizioni economiche della famiglia e la durezza della vita. Anche un pasto soddisfacente in tavola è diventato un problema. Le immagini e le sofferenze di questi terribili anni accompagneranno Ronald Reagan per tutta la vita e ne segneranno il connotato di esponente della destra sociale. Nel 1980, la sera del grande trionfo elettorale che lo consacra presidente degli Stati Uniti d’America, Neil, il suo unico fratello, gli dirà: «Chissà che festa faranno stanotte a Dixon». «Mi piacerebbe esser lì, a guardare in un angolino» risponde lui. Durante la campagna elettorale, un giornalista gli chiese come immaginava che gli americani lo vedessero; lui, esibendo il suo tipico sorriso, replicò: «Riderebbe se le dicessi che magari in me vedono se stessi, e che sono uno di loro? In fondo, non sono mai stato capace di distinguermi, né di pensare che in qualche modo sono diverso da loro».
Reagan è un ragazzo di provincia che fa il bagnino al Lowell Park, sulle sponde del Rock River, e passa la piccola paga e le mance alla madre. Un giovane umile e gioviale che, quando è ammesso al college con una borsa di studio per meriti sportivi, serve alla mensa e lava i piatti dei suoi colleghi per pagarsi libri e alloggio. Non si dispera per la sua condizione e non rinuncia ai sogni: laureatosi in economia, rifiuta banali impieghi e batte, quasi a piedi, tutto l’Illinois e anche gli Stati confinanti per realizzare il suo sogno: fare il radiocronista sportivo. Ci riesce e diventa, giovanissimo, una star, una voce apprezzata e seguita in tutto il Midwest. Approdato a Hollywood quasi per caso, rinuncia a una buona carriera nel campo del giornalismo sportivo per tentare di sfondare nel mondo del cinema. Sarà definito un «attore di serie B», che lavora tantissimo ma in produzioni di scarso livello o in parti minori. Lui non si cruccia più di tanto, perché guadagna bene e riesce ad affrancare se stesso e la sua famiglia dalla povertà. In realtà, sul set lavora con le più grandi star di Hollywood, da Olivia de Havilland a Errol Flynn, da Bette Davis a Jane Wyman (che sarà la sua prima moglie) e tanti altri.
Nel 1960 il senatore dell’Arizona, campione della destra repubblicana, Barry Goldwater pubblica il libro The conscience of a conservative (La coscienza di un conservatore), molto più di una piattaforma programmatica, un vero e proprio manifesto culturale. Nasce il conservatorismo popolare, autentica novità sul terreno della filosofia politica negli Stati Uniti del secondo dopoguerra. Goldwater, tuttavia, politico troppo intellettuale, non riesce a tradurre queste idee in vittoria elettorale alle presidenziali del 1964, nella sfida al democratico Lyndon Johnson, che stravince la consultazione. Nelle ultime ore della campagna elettorale accade però un fatto destinato a segnare il futuro. Lo staff repubblicano decide che tocca al brillante oratore Ronald Reagan, per conto del candidato Goldwater, tenere il discorso finale; nonostante la sconfitta del Grand old party (Gop) nella corsa alla Casa Bianca, il discorso A time for choosing si rivela un successo strepitoso. Negli anni a venire sarà citato migliaia di volte, chiamato semplicemente «The Speach», il discorso che di fatto consegna a Ronald Reagan la guida politica del movimento conservatore americano. Un testimone che l’ex attore raccoglie subito, riuscendo nell’impresa di farsi eleggere, nel 1966, governatore in uno dei più importanti Stati dell’Unione, la California, tra i più ricchi e più popolati, di tradizione democratica. La guida della California, oltre a consacrare Reagan tra le figure di punta del Partito repubblicano, si rivela il laboratorio sociale della sua rivoluzione conservatrice, soprattutto in economia.
Negli otto anni del suo mandato da governatore, la California diventa una delle economie più dinamiche e innovative del mondo e vede la nascita della Silicon Valley. La vittoria elettorale di Reagan nel 1980 è quasi ineluttabile. È la riscossa che l’America attende e che lui interpreta in maniera perfetta. Conquista ben 44 Stati, lasciando al presidente uscente solo sei Stati e il Distretto di Columbia, 489 grandi elettori contro appena 49. Anche in termini di voti assoluti la vittoria di Ronnie è schiacciante, 50,7 per cento contro il 41 per cento di Carter. Una vittoria che trascina l’intero Partito repubblicano. L’atteggiamento più diffuso in Europa, fatta eccezione per quella che diventerà la sua alleata migliore, Margaret Thatcher, è di uno scetticismo ai limiti della derisione.
La sua elezione alla Casa Bianca viene classificata come un’americanata di pessimo gusto. Molti giornali europei omisero quasi del tutto la circostanza che Reagan era già stato per due mandati il governatore della California. Lui non risponde agli scettici oppure ribatte, con una sottile ironia, ai detrattori. «Può un attore fare il presidente?» gli chiede un intervistatore. Replica: «Può un presidente non fare l’attore?».
Anni dopo, distaccandosi da un primo giudizio, lo storico Eric J. Hobsbawm nel suo noto saggio Il secolo breve avrebbe scritto: «Reagan, forse proprio perché era stato un attore hollywoodiano di secondo piano, comprese gli umori del suo popolo e la profondità delle ferite inferte al suo orgoglio». I fatti consegneranno alla storia uno dei migliori presidenti americani di sempre, forse il vero erede di Abramo Lincoln per forza morale e ispirazione ai valori della libertà. Dopo decenni di influenza keynesiana, si riparte dalle ispirazioni filosofiche di Hobbes, Locke e Tocqueville, per affermare la prevalenza dell’individuo, con i suoi diritti di natura, sullo Stato e la società. Nel gennaio del 2008 la figura di Ronald Reagan diventerà la scintilla di un’accesa rissa verbale tra i due principali candidati democratici alla Casa Bianca, Hillary Clinton e Barack Obama, in un dibattito televisivo organizzato dalla Cnn in South Carolina, in vista delle primarie in quello Stato.
Obama non avrà dubbi nell’affermare di avere grande e sincera ammirazione per Reagan, cosa che non piacerà a Hillary Clinton. Reagan termina i suoi otto anni alla Casa Bianca con un gradimento ancora maggiore di quello di cui godeva quando era stato eletto, la prima e la seconda volta, e con un indice di popolarità maggiore di quello di Ike Eisenhower che era stato tra i presidenti più graditi dal dopoguerra.