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La rinascita delle Province

La rinascita delle Province

Si parla della loro abolizione da mezzo secolo. Negli ultimi 15 anni quasi tutti i leader politici ne hanno annunciato la fine. Ma lo scorso 18 dicembre è iniziata la loro riscossa con le elezioni che hanno rinnovato 31 presidenti e 75 consigli di questi enti locali. Davvero intoccabili.


Torna a sperare l’Ogliastra, ben due capoluoghi designati: Lanusei, 5.283 anime, con Tortolì, 10.969 abitanti. Incrocia le dita il Medio Campidano, altre due capitaline in attesa: Sanluri, 8.175 residenti, assieme a Villacidro, che brulica di 13.278 cittadini. È vero: il governo, lo scorso giugno, ha bocciato i nuovi enti locali sardi. Ma la furia riformatrice è già una tiepida brezzolina. Da Gorizia a Siracusa, rinascono le Province. Più vispe e sinuose che mai. Si parla della loro abolizione da mezzo secolo. Negli ultimi 15 anni, quasi tutti i leader politici ne hanno annunciato l’imminente e spietata fine. Tagliare, smaltire, razionalizzare. Invece le care e vecchie provincette diventano, ancora una volta, fulgido emblema della gattopardesca Italia, che dice di voler cambiare ma non cambia mai. La riscossa è cominciata con le elezioni dello scorso 18 dicembre. Trentuno presidenti scelti, 75 consigli rinnovati. Si sono catapultati alle urne, con raro slancio, sindaci e consiglieri di oltre 5.500 Comuni. File ai seggi. Successone. Suffragio da record: 80 per cento di affluenza. Il 24 gennaio si voterà anche in Puglia. Doveva toccare pure alla Sicilia: le Provincie, abrogate in diretta tv dall’ex governatore Rosario Crocetta, sono commissariate da nove anni. Ma la rifioritura è solo rinviata alla primavera. Dal parlamentino isolano, intanto, s’alza un’ode: «Ridaremo la dignità che meritano».

La restaurazione procede inesorabile. Michele De Pascale, presidente dell’Unione delle province fresco di riconferma alla guida del ravennate, ammette: «Sono state elezioni particolarmente significative». Merito dei Migliori, ci mancherebbe. «Il governo ha riconosciuto e valorizzato queste istituzioni, assegnando grandi responsabilità, sia grazie al Pnrr che con l’ultima legge di bilancio». Tradotto: danari e poteri. Più di quanti ne abbiano mai visti. E non solo per infrastrutture ed edilizia scolastica, «investimenti che negli ultimi anni sono già cresciuti a doppia cifra». Si torna agli antichissimi fasti. Anzi meglio. Difatti, riemergono titani come Claudio Scajola e Clemente Mastella. L’ex pluriministro forzista, sindaco di Imperia, è stato appena eletto con un plebiscito presidente dell’omonima Provincia. Invece l’inossidabile fondatore di Ccd, Cdu, Udr, Udeur e ora primo cittadino di Benevento, non si è candidato a guidare il territorio natìo. La tornata in Campania è stata però l’imperdibile occasione per lanciare nell’agone il suo nuovo partito: Noi al centro. Trionfo. Perfetta rampa di lancio per la conquista della nazione. «Saremo una Margherita 2.0» informa Mastella. I temibili «terrapiattisti di centro».

Insomma, rieccoci. Oplà. Un imminente Ddl è pronto a spazzare via la riforma Delrio (inteso Graziano, ex ministro lettiano e renziano) che nel 2014 aveva trasformato le Province in organi di secondo livello. Spettanze residuali, risorse decurtate, niente voto popolare. Ma un pezzettino alla volta, i coriacei enti si sono rifatti sotto.

E adesso arriva la definitiva resurrezione. Lo scoppiettante progetto di legge prevede, innanzitutto, cinque anni di mandato per il presidente e il consiglio. Poi riappaiono le gloriose giunte: tre o quattro assessori, anche esterni, con metà stipendio degli omologhi comunali per cominciare. Si ricrea perfino il memorabile agone politico: maggioranza e opposizione, come ai bei tempi. E verrà riconsegnato il maltolto, ovvio.

Competenze oggi assegnate a Regioni e Comuni: caccia, pesca, cultura, protezione civile. Corposi capitoli di spesa, dotati di adeguate risorse. E poi, di grazia, tornano le assunzioni, dopo il blocco del turnover e il dimezzamento degli organici deciso nel 2015. Del resto, il Pnrr dà alle Province un ruolo decisivo: faranno pure da stazioni appaltanti per i piccoli Comuni. Scuole, asili e finanche l’ormai mitologica «rigenerazione urbana». Come prima e più di prima, dunque? Quasi. Manca soltanto l’elezione diretta del presidente, che comunque da un paio d’anni gode dell’indennità del sindaco che guida il capoluogo. La burrascosa storia, comunque, insegna: mai mettere limiti alla provvidenza.

I governanti fremono. «Il ridisegno delle Province è ormai impellente e indifferibile» annuncia da mesi Ivan Scalfarotto, sottosegretario all’Interno con delega agli enti locali. «Incongruenze e fragilità non permettono a queste preziose istituzioni di svolgere al meglio funzioni e compiti fondamentali». Immemore che il suo capo partito, quel Matteo Renzi al comando dell’agonizzante Italia viva, considerava patacche quelle pepite. Ad aprile 2014, dopo l’approvazione della riforma Delrio, da Palazzo Chigi cannoneggia: «Oggi abbiamo detto basta a 3 mila politici nelle Province». Conseguente giuramento: «Non si voterà più per gli enti provinciali». Rottamazione completata: «Avanti come un rullo compressore».

Momenti che riecheggiano ancora gloriosi. All’epoca, pure gli altri leader dell’attuale centrosinistra si scatenano. Nel luglio 2013, l’allora premier e attuale segretario del Pd, Enrico Letta, proclama su Twitter: «È stata abolita la parola “province” dalla Costituzione». E Beppe Grillo non fa prigionieri: «Le Province devono essere soppresse». Tagliarle, assicura il fondatore dei Cinque stelle, garantirebbe un risparmio di 2 miliardi. «La loro esistenza aumenta la burocrazia, poiché introduce ulteriori livelli decisionali» assalta Beppe. «Sono un poltronificio utile a piazzare politici, parenti e amici ammanicati, nonché a provvedere alle loro nomine in aziende partecipate e controllate». Il Movimento, dunque, rifiuta con sprezzo di partecipare a qualsivoglia elezione provinciale.

Cinque anni dopo, a maggio 2019, Luigi Di Maio, da capo politico dei grillini reitera il rifiuto: i probi non si candideranno per gli inutili enti, ultracasta da annientare. «Le Province sono uno spreco, è inutile ammalarsi di amarcord per farle ritornare». E, sprezzante, avverte la Lega: «Chi le vuole, si trovi un altro alleato». Adesso invece frotte di consiglieri comunali pentastellati si lanciano ovunque in appassionate campagne elettorali a caccia delle vituperate cadreghe.

Eppure, non le voleva più nessuno. Checco Zalone, sei anni fa dedica alle morenti istituzioni un film di strepitoso successo: Quo vado? Interpreta l’inossidabile preposto al soppresso ufficio Caccia e pesca, inarrivabile simbolo di fannullonismo destinato a rinascere. Con il senatore Nicola Binetto, alias Lino Banfi, ras di posti fissi per i compaesani, che gli domanda: «A te dove ti ho messo a non fare un chezzo?». E Checco: «Alla Provincia!». «Ahhh, sudore, sudore…» ironizza Binetto. Tempi duri: «Ma ora ha sentito, senatò? Mi mettono in mobilità!». Il politico rettifica: «Ma che mobilità, quelli vogliono licenziare!». Niente paura. Incubo finito. Tremate tremate, le Province son tornate.

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