Sergio Mattarella aveva più volte annunciato pubblicamente la sua indisponibilità a un secondo mandato, ma poi ha deciso diversamente. In realtà, questa operazione per il Quirinale, studiata dagli esponenti di sinistra come Enrico Letta e Roberto Speranza, e dal Cinque stelle Luigi Di Maio, era partita un anno fa. Una rielezione in cui è stato cruciale anche l’entourage del capo dello Stato. Che così riafferma il suo potere in perfetto stile democristiano.
E’ l’apoteosi del principio paretiano: massimo risultato con il minimo sforzo. I siciliani l’hanno trasformato in arte. I democristiani in strategia. Sergio Mattarella è sia l’uno che l’altro: palermitano all’anagrafe, scudocrociato sul petto. L’hanno rieletto al Quirinale tra gli osanna. Una sorpresa per molti. Non per lui. E nemmeno per due ex viceré dell’isola. Solo i siciliani conoscono davvero i siciliani. Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale e grande elettore, s’è aggirato per giorni tra i marmorei palazzi romani con la schedina vincente tra le dita. Mentre al falò parlamentare brucia una candidatura dopo l’altra, dice sibillino: «I siciliani vogliono essere chiamati».
A elezione avvenuta, chiarisce: «Il mio è un ragionamento antropologico sulla natura stessa dei palermitani. Ma vi pare che un siciliano doc come Mattarella si mette a fare un endorsement a sé stesso? Aspettare che un palermitano dica chiaramente “voglio essere io” è perdere tempo».Totò Cuffaro, l’ex governatore diccì più votato di sempre, dalla sua campagna nell’ameno entroterra isolano aggiunge: «Dopo Mattarella ci poteva essere solo Mattarella. Lui aveva messo le mani avanti, è vero. Ma non perché non volesse, anzi. Nel centrodestra ci tenevano a indicare un altro nome. E lui li ha lasciati fare. Ma adesso è ben lieto della riconferma. Fanno così i buoni democristiani».
«Se c’è la candidatura dell’amico Giulio, la mia non esiste» si schermisce Arnaldo Forlani nel film Il divo. «Se c’è la candidatura dell’amico Arnaldo, la mia non esiste» replica Tony Servillo, alias Giulio Andreotti. Conclusione del Paolo Cirino Pomicino cinematografico: «Vogliono candidarsi tutti e due».
Torniamo dunque al presidente della Repubblica, riconfermato per il secondo mandato, a dispetto della sbandierata indisponibilità. Sembrava non vedesse l’ora di passare dal maestoso parco del Quirinale agli abbandonati giardinetti vicino a Villa Ada, dove aveva preso casa. Scatoloni pronti. Materassi e divanetti in viaggio dalla dimora palermitana a quella romana. Clic, clic, clic. Fotografi in agguato. Trasloco imminente. Addio lussi quirinalizi, finalmente l’agognata solitudine. Un Cicinnato urbano. Tracimanti di svenevolezze, i giornali in visibilio.
Dimentichi che il capo dello Stato, negli ultimi sette anni, per scelta o necessità, è stato il vero puparo. Ha benedetto la nascita di ben quattro governi. Sugli ultimi due, resta la sua impronta indelebile. Prima favorisce la nascita del disastroso Conte II, con un inedito patto tra Pd e Cinque stelle. Poi convince Mario Draghi, la più blasonata riserva della Repubblica, a diventare premier. Imponendo, tra l’altro, la riconferma dei ministri più deludenti del governo Giuseppi: Roberto Speranza alla Salute e Luciana Lamorgese agli Interni.
Un quarto di secolo in Parlamento. Tre volte ministro. Vicepresidente del Consiglio, con delega ai servizi segreti. Nessuno personifica il potere politico come lui. Eppure, sembrava che fosse interessato al Colle come a una lezione notturna di termodinamica applicata. Invece l’operazione Mattarella bis, ordita dai nipotini della sinistra Dc, parte un anno fa. Poi, l’incognita: la fregola di Draghi di salire al Quirinale. Superata dalla tenacia del Parlamento di voler conservare la cadrega: «Hanno barattato sette anni di presidenza della Repubblica per sette mesi di stipendio» svelena la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Già, ma chi?
Ufficialmente tutti, meno il suo partito. In pratica: Enrico Letta, segretario del Pd; Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e aspirante capo dei Cinque stelle; il succitato Speranza, alla guida del morente Articolo Uno. Sono i tre leader che, con il loro silenzi, hanno furbescamente affossato le speranze di gloria di Matteo Salvini, intestarditosi nella ricerca del sostituto. Cercato persino tra autorevolissimi incatalogabili, come il giurista Sabino Cassese. Era in buona, ma ingenua, fede. Gli altri no. Lasciato che il capo del Carroccio si schiantasse, prima di ricalare l’asso. Li segue a ruota Matteo Renzi, troppo impegnato a mostrarsi il più furbo dell’emiciclo nonostante suo 2 per cento. Difatti, salutano tutti la rielezione con entusiasmo da finale dei mondiali. Partiamo dall’ultimo. Renzi: «Meno male che Sergio c’è». Speranza: «Una grandissima gioia». Letta: in aula stringe mani, batte cinque, posta foto della matita con cui ha votato. Un tarantolato. «Il Mattarella bis era il nostro sogno. È diventato realtà» esulta. Di Maio: «Ha vinto il Paese, questa elezione viene dal basso. Dalle 16 preferenze di lunedì, che crescevano sempre, fino a oggi».
Ecco, il basso sarebbero dunque quei peones terrorizzati dal vuoto. In Parlamento, i voti per Mattarella crescono dalla prima all’ultima votazione. Una montante moral suasion. I numeri arancioni sul tabellone luminoso, al termine di ogni scrutinio, sono lo sprone a mettere da parte ogni velleità. Di fronte a cittadini infastiditi e impazienti, c’è solo una mossa: Re Sergio. Intanto la pattuglia di fedelissimi, capitanati da Stefano Ceccanti, deputato Pd e costituzionalista, si adopera per convincere i colleghi, specie di centrodestra. Aspettano l’implosione. Poi, girano la carta coperta. L’unica vincente. Ma il diabolico piano non sarebbe probabilmente riuscito senza gli uomini del presidente, che lavorano a fianco di Mattarella da sempre.
Grand commis, consiglieri e superburocrati. La regia occulta sarebbe di Ugo Zampetti, 72 anni, segretario generale di Montecitorio per tre lustri e poi segretario generale del Quirinale, ovviamente fresco di riconferma. L’eminenza grigia. Il più machiavellico. Il mazziere, sebbene a titolo gratuito. In splendidi rapporti con Roberto Fico, presidente della Camera, anche lui arcimattarelliano. Supposto fautore delle votazioni a rilento dei primi giorni, che avrebbero finito per complicare l’ascesa di Draghi. Insinuazioni a cui reagisce sdegnato.
Di certo, sono stati molti i grillini che, per salvare la legislatura, cominciano a votare Mattarella fin dai primi scrutini. Peones, appunto. Il ruolo di Giggino, iniziale supporter del premier, a quel punto è determinante. Ne è passato di tempo da quando, spaesato ventiseienne, diventa presidente della Camera. È il 2013. A guidarlo tra i meandri del potere, dove adesso si infila sinuoso, è proprio Zampetti. Una dritta dopo l’altra, l’attuale ministro degli Esteri finisce per assomigliare al suo inaspettato mentore. Andreottiano puro, ormai. Dopo aver annichilito il traballante Giuseppi, vuole riprendersi quel che resta del Movimento.
Zampetti, quindi. Apparentemente schivo, chioma bianca fonata, signorile e galante. Muove i fili del Colle, dalle banche all’intelligence. Il padre era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama. Lui è il burocrate più potente d’Italia, fieramente contrario al centrodestra di Salvini e Meloni. A lui invisi quasi quanto Renzi, che da premier lo allontana, indispettito proprio per i suoi rapporti con Di Maio. Poco male. Mattarella, nel 2015, richiama Zampetti in servizio. Si conoscono da una vita, tramite i genitori. Ma la consuetudine comincia, uno deputato e l’altro funzionario, alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio.
A fianco di Mattarella ci sono anche due amici di sempre. Il primo è Giovanni Grasso, giornalista e storico. Proprio un suo tweet pre elezioni, il 22 gennaio scorso, diventa l’ennesimo depistaggio. Gli scatoloni nel suo ufficio e lui pronto a dire addio al Quirinale: «Fine settimana di lavori pesanti». Il «portasilenzi» che, proprio alla fine, viene colto da un impeto di loquacità. Giornalista di Avvenire, scrittore, storico: Grasso è il biografo di Piersanti Mattarella, fratello del presidente, ucciso dalla mafia. Il capo dello Stato è il suo testimone di nozze. Negli anni Novanta è portavoce anche del presidente del Senato, Nicola Mancino, e del ministro, Andrea Riccardi.
L’altro sodale di una vita è Gianfranco Astori: già corrispondente da Bruxelles e direttore dell’agenzia Asca, parlamentare e sottosegretario diccì di lungo corso. Tra i più abili della squadra c’è pure il consigliere politico, Francesco Saverio Garofani, ex deputato del Pd e direttore del Popolo. È lui l’esperto per le questioni istituzionali. Daniele Cabras, figlio del senatore democristiano Paolo, guida l’Ufficio Affari giuridici e relazioni costituzionali. Infine, Simone Guerrini. Vanta con Mattarella un legame più che trentennale. Pisano, è amico d’infanzia di Enrico Letta. Tutti confermati, ovviamente. Dal primo all’ultimo. Impenitenti cattolici di sinistra. Protagonisti assoluti della restaurazione.
E adesso, dopo la mandrakata degli eterni scudocrociati, che si fa? I giornali esultano. Ma c’è poco da festeggiare. Draghi, sebbene abbia tentato di intestarsi la rielezione, è indebolito. Partiti e alleanze, dopo il pietoso spettacolo, sono in frantumi. Si rimpiange il proporzionale, ognuno per sé e che Dio l’aiuti, tornato in voga grazie anche al bendisposto Mattarella. Le elezioni, intanto, si avvicinano. Il numero di deputati e senatori, al prossimo giro, sarà falcidiato. Due terzi degli eletti vedranno il Parlamento solo la sera, durante il tiggì. Liberi tutti, allora. Tra un anno, in pochi rimarranno al loro posto. Leader compresi, probabilmente.
Chi ci sarà sicuramente è Re Sergio. Non ha nessuna intenzione di emulare il suo predecessore, Giorgio Napolitano, che mollò il Quirinale a meno di due anni dall’inizio del secondo mandato. Ha già chiarito: sarà un incarico «pieno». Scadrà dunque nel 2029. Dopo 14 anni di potere ininterrotto. Più che un presidente, un monarca assoluto. Eppure, il riconfermato assicurava di bramare il ritiro. Invece, oplà. Massimo risultato con il minimo sforzo. Poteva riuscire solo a un vecchio siciliano di fede democristiana.
