Leale a Matteo Salvini, ci mancherebbe. Ma schieratissimo con il premier Draghi. Così Giancarlo Giorgetti, ministro per lo Sviluppo economico, oscilla tra sostegno quotidiano all’esecutivo e consigli (anche non richiesti) su strategie alternative a Matteo Salvini, il suo segretario.
Quand’era ragazzo, ricorda, tutti volevano essere degli implacabili numeri nove. Lui, invece, giocava in porta. La metafora di una vita. Solo più recentemente, Giancarlo Giorgetti s’è attribuito un altro ruolo: regista. Alla Andrea Pirlo. Non è che adesso sogna di fare il centravanti? Da mesi, il ministro dello Sviluppo economico borbotta ed eccepisce. Rimarca assoluta fedeltà a Mario Draghi: «Un fuoriclasse» dice, attingendo ancora alle metafore pallonare. Intanto, sembra allontanarsi dalla Lega (di cui resta però vicesegretario federale). O, meglio, dal suo indiscusso leader, Matteo Salvini. Paragonato, nella definitiva intemerata, a Bud Spencer.
Basta sganassoni per fare «il campione d’incassi in un western». Meglio un ruolo da protagonista «in un film drammatico candidato agli Oscar». Meglio diventare come «Meryl Streep». Barba incolta a parte, ovviamente. Poco importa. L’importante è che Matteo si trasformi in sincero moderato. Perfetto esegeta del draghismo. Stimato membro del Ppe in Europa. Fautore, in assenza di migliori idee, dell’ascesa del premier al Quirinale in versione semipresidenziale. Peccato che il leader leghista non pensi a bere il tè nei salotti europei. Al contrario, sogna una roboante alleanza sovranista con i più ruvidi del continente: il premier ungherese Victor Orbán, quello polacco Mateusz Morawiecki. Altri Bud Spencer. L’esatto contrario di quanto suggerisce urbi et orbi il suo vice.
In via Bellerio non stupiscono i contenuti, ma i modi. Va bene rimarcare l’incondizionata stima per Draghi. Giorgetti è l’unico nel governo a dargli del tu. Si sentono quotidianamente. Ma perché il mite Giancarlo continua, a dispetto dei lacrimosi paragoni cinematografici, a tirare pubblici ed epici manrovesci al capo? Urge giro di telefonate tra fedelissimi. I leghisti sono gente loquace e alla mano. Stavolta però, di fronte all’inevitabile quesito, preferiscono svicolare. «Non lo capisco neanch’io». «Non ne parlo volentieri». «Sentiamoci in un altro momento».
Nel mutismo generalizzato, si fanno strada tre ipotesi. La prima è suggestiva: il ministro vuole prendersi il partito e magari Palazzo Chigi, se SuperMario dovesse finire davvero sul Colle. La seconda è stuzzicante: tasta il terreno per conto dell’amato Draghi. La terza è pacificatoria: pungola solo nell’interesse di Salvini. Pensa, insomma, che la fase populista sia terminata. Vede Matteo oscillare. Serve dunque un centro di gravità permanente. Meglio puntare alla statuetta che al botteghino. Più accorto annettere Forza Italia e guidare i moderati che tentare l’assalto a Palazzo Chigi con le cancellerie europee di traverso.
L’indimenticabile Mike Bongiorno, a questo punto, domanderebbe: «La uno, la due o la tre?». Chissà. Di certo Giorgetti, solida fama da burbero stratega, non parla a caso. Anche se quelle su Bud e Meryl, lo difendono i suoi, sarebbero solo «frasi estrapolate dal contesto»: ovvero l’ultimo libro natalizio di Bruno Vespa. Può darsi. Ma già il 27 settembre scorso un’intervista a La Stampa faceva sobbalzare i leghisti. Il ministro propone: SuperMario al Quirinale con superpoteri presidenziali. Come Charles de Gaulle, il generale che fondò la Quinta Repubblica francese. Solo l’anticipazione, in definitiva, di quanto avrebbe reiterato. Ma anche quella volta, Giorgetti va oltre. A pochi giorni dalle amministrative, demolisce i candidati sindaci del centrodestra nelle grandi città. Arrivando addirittura a suggerire l’appoggio a Carlo Calenda, poi sconfitto a Roma e suo predecessore alla guida dello Sviluppo economico.
Boom. Titolone sul quotidiano torinese. Proprio lo stesso giorno in cui i giornali concorrenti, Repubblica e Corriere della sera, mettono in pagina un sincronico scoop: Luca Morisi, inventore della Bestia e Rasputin digitale di Salvini, sarebbe indagato per aver ceduto droga a due giovani escort. Da una parte, le suggestioni dello statista. Dall’altra, i festini del consulente inviso ai governisti. Mentre lo stratega indica la rotta, il Capitano annaspa.
Casualità, ci mancherebbe. La comunicazione del ministro è ormai nelle sicure mani di Iva Garibaldi, già zarina salviniana. La Bestia e la bella. Spesso ritratti insieme nelle immagini di repertorio. Il diabolico e la soave. Se Morisi era il genio dei social, lei proponeva e disponeva ogni apparizione nell’etere. Veniva considerata l’artefice delle fortune televisive di Salvini. Ora invece segue Giorgetti come un’ombra. Verga una puntuale e istituzionalissima agenda diffusa su WhatsApp: Giorgetti news. Colloqui istituzionali, gestioni di crisi, compassati resoconti. E viaggi all’estero. Tanti.
Il vicesegretario leghista vanta incontri nelle cancellerie internazionali degni di un ministro degli Esteri. È appena tornato dagli Emirati Arabi, dopo una trionfale visita negli Stati Uniti. Ovunque vada, raccoglie sperticati elogi per conto di Draghi. Da Washington a Berlino, tutti sperano che l’ex presidente della Bce resti dov’è. Vita natural durante. L’interessato invece gradirebbe salire al Colle, pare. Così, il leghista consiglia: bisogna confermare Sergio Mattarella «ancora per un anno» oppure eleggere Draghi con amplissimi poteri. Possibile che il riservato premier, con cui vanta impareggiabile consuetudine, ignori le sortite? Improbabile. I salviniani più battaglieri malignano allora sull’inconfessabile schema: Draghi al Quirinale, Giorgetti a Palazzo Chigi.
Il partito, però, resta saldamente in mano al leader. E nessuno dimentica. Dieci anni fa la Lega sembra destinata all’estinzione. È la notte dei tempi. Anzi, la «notte delle scope». Aprile 2012: Salvini imbraccia la ramazza perché «l’è ura de netà fo’ ol po’ler». Già: è ora di pulire il pollaio. Dagli scandali di Umberto Bossi e famiglia. Con la decisiva complicità dell’allora tesoriere, Francesco Belsito. Lingotti, diamanti, soldi in Tanzania. E la celeberrima laurea in Albania del «Trota», il figliolo dell’Umberto.
Matteo diventa segretario. Anni dopo, alle Europee 2019, il Carroccio supera il 34 per cento. Poi, lo strappo del Papeete. Sfumati i gialloverdi, si torna all’opposizione. Fino all’avvento di Draghi. Salvini segue il convincimento di Giorgetti: bisogna stare dentro, per evitare di lasciare il Paese a Pd e Cinque stelle. Saremo di lotta e di governo, annuncia. Gli elettori capiranno. Invece, complice lo smarrimento politico di fronte al premier decisionista, non capiscono. Immigrazione, green pass, pensioni. Lotta o governo? Tenere il piedone in due scarpe finisce per favorire l’unico partito all’opposizione: Fratelli d’Italia. Prevedibile. Ma il successo di Giorgia Meloni tormenta Salvini. E non solo. La Lega, negli ultimi sondaggi, è tornata al 17 per cento, quanto raccolto alle Politiche del 2018. Grazie al taglio del 30 per cento dei parlamentari, i futuri eletti sarebbero però una sessantina meno degli attuali 190. Così non funziona, ragiona Giorgetti. Il centrodestra rischia di perdere le prossime elezioni.
Basta pugni in testa alla Banana Joe, allora. Solo che, un’intervista via l’altra, il ministro fiacca il segretario. Avversari e giornaloni ci sguazzano. E, per la prima volta, spunta pure un’alternativa realistica: Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli-Venezia Giulia e presidente della Conferenza delle Regioni. Più democristiano che barbaro. Sarebbe il perfetto interprete del moderatismo predicato invano da alcuni. Come Luca Zaia del resto, suo omologo in Veneto, con cui forma un fronte contiguo non solo geograficamente. Vaccini, carta verde, rigorismo sanitario: ormai i due non perdono occasione per rimarcare debita distanza dall’ala populista.
Nemmeno un mese fa, Giorgetti sibila: «Se Salvini è contento, sono contento. Se Draghi è contento, sono contento. Se Salvini e Draghi sono contenti, io sono felice». Ma tra il Capitano e SuperMario, lo storico Richelieu leghista sembra aver scelto con chi stare: dalla parte del pluridecorato presidente della Bce. Per questo è a suo agio nel ruolo di esegeta del pensiero draghiano.
O magari quegli appunti a Salvini sono davvero solo impellenti consigli non richiesti. Basta film di cassetta, serve una candidatura all’Oscar. Meno sovranismo, più europeismo. Comunque sia, il lombardissimo Giorgetti dovrebbe tenere a mente quel sicilianissimo proverbio: «Chi nasce tondo non può morire quadrato».