La visita di Xi Jinping a Vladimir Putin è l’ennesimo tassello di una strategia più ampia, dove il rebus Ucraina è un dettaglio. Il vero obiettivo è completare l’espansione globale che passa per acquisizioni economiche negli Stati più ricchi e conquista di materie prime e territori in quelli in via di sviluppo. E l’Italia è a un bivio: dove proseguire sulla Via della Seta è molto pericoloso.
La baronessa, il divo guerriero e il Dragone. Non è, purtroppo, un film fantasy, ma la cronaca che dalla martoriata Ucraina s’irradia a gettare luce sinistra sul nuovo espansionismo cinese. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione di un’Unione europea assente e inconsistente sullo scacchiere mondiale, corre con colpevole ritardo a incontrare Xi Jinping, mentre Volodymyr Zelensky spera che il dittatore cinese lo vada a trovare a Kiev. Teme che s’indebolisca il sostegno degli Stati Uniti e guarda alla proposta di mediazione che la Cina ha avanzato come possibile via di uscita che consente a lui di salvare la faccia.
Che si salvi l’Ucraina è altra questione. Se passa la mediazione di Pechino, per l’Occidente sarebbe una sconfitta totale: avrebbe consegnato la Russia nelle mani di Xi e l’Ucraina entrerebbe nell’influenza economica – il Donbass straripa di terre rare – del Celeste impero. La Cina, dopo gli accordi sul Mar nero, ha comprato 5,2 milioni di tonnellate di prodotti agricoli tra frumento, mais e olio di girasole, pari al 21,5 per cento sul totale partito dai porti ucraini da agosto 2022. Più di tutti.
C’è la fila per incontrare Xi. Con Ursula von der Leyen viaggerà il presidente francese Emmanuel Macron, mediatore fallito del conflitto ucraino; il premier spagnolo Pedro Sánchez è appena rientrato a Madrid dopo due giorni a Pechino. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz programma la seconda visita in Cina in un semestre. Spera che Xi non armi la Russia, ma ha una forte preoccupazione per i rapporti commerciali e industriali. Scholz deve difendere gli investimenti tedeschi in Cina: sono oltre 80 miliardi e l’interscambio tra i due Paesi supera i 200 miliardi. In lista d’attesa c’è il presidente brasiliano Lula: di recente ha fatto nascere il «sur», la moneta di scambio tra il suo Paese e l’Argentina, che vorrebbe agganciare al renminbi, la valuta cinese che Xi ha deciso di piazzare ovunque come alternativa al dollaro. Il dittatore cinese si presenta come il grande pacificatore, ma il disegno vero è diventare egemone.
Dopo la terza elezione consecutiva a presidente della Repubblica popolare cinese e riunendo in sé le cariche di segretario del Partito comunista e di comandante supremo dell’esercito, Xi è riuscito là dove solo Mao Zedong era arrivato: essere il capo supremo a vita. Tra lui e Mao c’è una differenza: oggi la Cina è la superpotenza che contende agli Usa il governo mondiale. La strategia di Xi è quella dell’espansione diplomatica che significa anche supremazia economica. Lo ha esplicitato nel suo discorso al Paese da mediatore del mondo, ma annunciando anche che la riunificazione di Taiwan «è un’aspirazione comune di tutti i cinesi e nessuno deve provare a interferire o a fermarci». Il passo in avanti decisivo lo ha fatto durante la visita a Vladimir Putin al Cremlino. Xi Jinping in un editoriale sulla Rossiyskaya Gazeta – giornale che ha rimpiazzato la Pravda dei tempi dell’Urss – scrive: «Ho proposto l’Iniziativa Belt and Road, l’Iniziativa per lo sviluppo globale, l’Iniziativa per la sicurezza globale e l’Iniziativa per la civiltà globale. Tutte hanno arricchito la nostra visione di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità e fornito percorsi pratici per raggiungerla. Sono parte della risposta della Cina ai cambiamenti del mondo, dei nostri tempi e della traiettoria storica».
È il nuovo ordine mondiale in cui Pechino è il sole e attorno orbitano pianeti come India, gran parte dell’Africa, Russia, parte del Medio Oriente e, al netto di Corea del Sud, Giappone e Filippine, tutto il Sud-est asiatico. La penetrazione del Dragone è incessante. Xi Jinping ha costruito l’accordo diplomatico tra Arabia Saudita e Iran. La Cina che ha fame di energia si è fatta dare una fornitura esclusiva dall’Arabia di petrolio e gas che paga in renminbi. La postura che assume Xi è di «potenza responsabile» in un mondo multipolare di cui vuole assumere la leadership assicurando, come scrive Xi sul giornale russo, che «nessun modello di governo è universale e nessun singolo Paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale». Ma usando la guerra in Ucraina come il plateau di questo nuovo risiko approfitta per avere verso gli Usa toni da guerra fredda accusandoli di neocolonialismo. Non a caso il nuovo ministro degli esteri di Pechino è Qin Gang, ex ambasciatore a Washington e la sua portavoce Hua Chunyng ha sottolineato: «La Cina resta dalla parte giusta della Storia».
Dunque Pechino si presenta come il partner economico più affidabile e come il nuovo «sceriffo» a fianco dei Paesi non occidentali. Dal 2016 al 2021 Pechino ha speso 240 miliardi per sostenere i Paesi che hanno aderito alla Via della seta. Carmen Reinhart, ex capoeconomista della Banca mondiale, ha fatto i conti: i prestiti concessi agli Stati in difficoltà sono passati in dieci anni dal 5 al 60 per cento dei suoi impieghi. L’Argentina ha avuto 112 miliardi di dollari, il Pakistan 48,5 miliardi e l’Egitto 15,6 miliardi di dollari. Pechino sta ristrutturando il debito di Zambia e Ghana in Africa e Sri Lanka in Asia. Sul fronte economico ha sviluppato una rete parallela allo Swift – il sistema di pagamento internazionale da cui è stata esclusa Mosca – con India, Arabia, Russia e sta sostituendo con il renminbi (o yuan) il dollaro come moneta per le transazioni nella sua enorme area d’influenza. È il caso di cominciare a domandarsi perché in sede Onu due terzi del mondo non vota con Stati Uniti ed Europa.
Né c’è da stupirsi se a Bangui, la capitale nella Repubblica Centrafricana, le persone sfilano dietro striscioni con scritto: «La Russia è Wagner, noi amiamo la Russia e amiamo Wagner» e «Sostegno alla Cina». In Paesi come Burkina Faso, Mali, Sudan nella Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe, la Russia è in affari con la Cina. In Medioriente, ovvero in Siria, continua la sua sorveglianza attiva. L’offensiva commerciale antioccidentale sta prendendo forma rapidamente. Del pari anche la potenza militare cinese si rafforza. Per il 2023 il target di Pil che Pechino si è dato è del 5 per cento dopo avere superato l’idea (sbagliata) del contagio zero-Covid, per le spese militari è previsto un aumento del 7,3 per cento. Negli Usa l’ammiraglio Michael M. Gilday, lo stratega della Marina, è stato esplicito: «I cinesi hanno più navi di noi». Il Congresso ha riunito la Commissione che si occupa della Cina e Mick Gallagher, esponente repubblicano di spicco del Wisconsin, che la presiede, ha scandito: «Il partito comunista cinese è una minaccia per l’America che si gioca nei prossimi dieci anni il futuro».
Gallagher ha poi raccolto un consenso bipartisan sull’affermazione: «Joe Biden è troppo debole nei confronti di Pechino». Se la Casa Bianca ha respinto il piano di mediazione cinese, negli Stati Uniti sono convinti che per chiudere la partita di Kiev bisogna fare pressione su Zelensky. Il presidente ucraino parlando con Associated Press ha ribadito: «Gli Usa non capiscono, se smettono di aiutarci non vinceremo». Pechino dialoga con Putin, ma la partita si gioca solo tra Usa e Cina. Con l’Europa che sta a guardare. La Cina vede Il Vecchio continente solo come un grande mercato. Nel nuovo ordine mondiale multipolare per Xi Jinping c’è spazio solo per due superpotenze e si dovrà decidere chi vince. Il resto del mondo è strumentale, è provincia. Deve prendere atto di questo anche l’Italia. Pechino, intanto, continua a fare pressione su Roma per il rinnovo del patto della Nuova via della Seta che scade tra un anno. Nel 2019 il nostro Paese fu il solo a siglarlo, con Giuseppe Conte presidente del Consiglio. Il nuovo ambasciatore cinese in Italia Jia Guide ha già detto che i «fatti fanno premio sulla retorica». E i «fatti» sono che la Cina nel 2022 ha avuto con l’Italia scambi per 77,8 miliardi di dollari, che con la sua compagnia elettrica statale State Grid of China cerca di allargarsi in Cdp reti dove già possiede il 35 per cento del capitale.
Anche la Nato è insorta per l’aggiramento che la Cina sta facendo sul porto di Taranto. Per ora, nello scalo pugliese, ha acquisito un’area per Ferretti group, il cantiere dei superyacht in mano alla società statale Weichai. I cinesi sono già in partnership con i tedeschi nel porto di Trieste. La strategia del Dragone è quella di comprare i porti europei dove è pronta a investire altri 6 miliardi di euro. È la stessa manovra che si sta facendo con le batterie per veicoli elettrici e con le auto. L’ultima frontiera è l’assalto alle banche. In Italia si è già affacciata la China Construction Bank che punta anche a Francia, Polonia, Spagna, Paesi Bassi e Svizzera. Perché il nuovo ordine mondiale, è palese, ha bisogno di credito.
