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C’è una Corte «politica» internazionale

C’è una Corte «politica» internazionale

L’incriminazione del presidente russo Vladimir Putin è, prima ancora che giudiziaria, una mossa per indebolirne il potere. E per giustificare l’esistenza di un istituto che, finora, si è dimostrato poco efficace.


«Penso che Putin non verrà processato dalla Corte penale internazionale. La Russia non ha ratificato lo Statuto di Roma che ha portato alla nascita della Corte, e la Corte non ha una polizia per andarlo a prendere. Però la storia, anche recente, ci insegna che gli autocrati, prima o poi vanno a finire male». Parola di Cuno Tarfusser, magistrato di lungo corso che per 11 anni, fino al 2019, è stato giudice della Corte penale internazionale (Cpi), che persegue i crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio. Il 17 marzo l’Assise con sede a L’Aja, nata nel 2002, ha emesso un mandato di cattura per il presidente russo Vladimir Putin, accusandolo «del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione russa».

Angela Del Vecchio, docente della Luiss di Roma e autrice di un libro sui Tribunali penali internazionali, conferma che «Putin difficilmente finirà alla sbarra. Per statuto la Corte non può processare gli incriminati in contumacia». Flavia Lattanzi, che è stata giudice dei Tribunali internazionali per il Ruanda e l’ex Jugoslavia, sostiene che la Corte de L’Aja «non può indagare sul crimine di aggressione contro la popolazione ucraina di cui i membri della leadership russa sono sospettati, perché né Russia né Ucraina sono parti dello Statuto di Roma».

Anche Cina, Stati Uniti, India e altri Paesi non riconoscono la Cpi, ma Kiev ha accettato la giurisdizione della Corte sui crimini commessi sul suo territorio dal 2014. Tarfusser spiega che il mandato di cattura per Putin «è la certificazione giudiziaria dei crimini che va ad aggiungersi alla delegittimazione politica sancita dall’assemblea delle Nazioni Unite e all’indebolimento economico derivante dalle sanzioni. Tre fattori che possono erodere il suo potere dentro la Russia e nella cerchia dei suoi stretti sostenitori». Le tempistiche dell’incriminazione alla vigilia della visita a Mosca di Xi Jinping, il presidente cinese, fanno pensare che la mossa non sia stata solo giudiziaria, ma pure «politica». Secondo Del Vecchio, si tratta «di una dimostrazione di esistenza della stessa Corte», accusata di avere combinato poco negli oltre vent’anni di vita, «e un segnale a Putin, isolandolo e rendendo un “paria” che non può viaggiare nei 123 Stati che riconoscono la Cpi».

Il procuratore capo del tribunale de L’Aja, Karim Khan, è inglese. Subito dopo il mandato di cattura a Putin ha partecipato a Londra a un conclave dei ministri della Giustizia occidentale per appoggiare la Corte penale e raccogliere 4,6 milioni di euro (non molto) per la sua attività. La Cpi dispone di uno staff di 900 persone, provenienti da 100 nazioni diverse, ed è composta, oltre che dal procuratore e due vice, da 18 giudici, compreso l’italiano Rosario Salvatore Aitala, ex consigliere legale del presidente del Senato, Pietro Grasso. In vent’anni la Corte è costata 1,5 miliardi di euro e il budget per il 2023 è di 169.649.200 euro. L’Italia è il quinto Paese sostenitore. Tanti soldi rispetto ai risultati: appena 40 mandati di cattura per crimini di guerra e solo 21 eseguiti oltre a 6 ritirati per la morte dell’accusato. Trentuno casi sono stati portati davanti alla Corte e in 7 sono dietro le sbarre in Africa. I latitanti risultano 16.

«La Corte ha un budget che corrisponde più meno a quello dei vigili del fuoco del Land di Berlino, come mi faceva notare un collega tedesco» osserva Tarfusser. «Più che dire che i fondi sono troppi, bisogna pretendere che siano utilizzati bene». E aggiunge: «All’entrata in funzione della Corte è stato assunto personale con scarsa esperienza, arrivato direttamente dalle università, spesso anche non all’altezza ma che tutt’ora è alla Corte avendo trovato il posto fisso della vita». I critici sostengono che l’Istituto internazionale abbia concentrato troppo la sua attività sull’Africa, dove comunque è stato perpetrato un alto tasso di crimini di guerra. I pezzi grossi, come i presidenti, non sono mai finiti alla sbarra a L’Aja o hanno ottenuto l’assoluzione. Qualche esempio fra i tanti. L’ex presidente sudanese, Omar al-Bashir, accusato di crimini contro l’umanità per la pulizia etnica in Darfur ha evitato l’arresto anche quando viaggiava all’estero. Nel 2015 ha dovuto andarsene in fretta e furia dal Sudafrica temendo di venire fermato ed estradato a L’Aja. Quattro anni dopo un colpo di Stato lo ha deposto costringendolo agli arresti domiciliari, ma nonostante le ripetute richieste della Corte non è mai stato consegnato a L’Aja.

L’attuale presidente del Kenya, William Ruto, e il suo predecessore, Uhuru Kenyatta, erano stati entrambi incriminati, ma le accuse sono decadute perché «le autorità del Paese non erano collaborative». Mu’ammar Gheddafi è stato ucciso prima di comparire davanti a qualsiasi tribunale e il suo erede Saif al-Islam, sempre latitante in Libia, vuole candidarsi alle elezioni presidenziali. L’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, accusato di crimini contro l’umanità e di tremila morti per la guerra civile nel suo Paese, ha passato sette anni in custodia a L’Aja. Nel 2019 è stato assolto tornando poi in Costa d’Avorio, dove gode dei privilegi da ex capo di Stato. Flop clamorosi che hanno spinto Everisto Benyera, docente di Politiche africane all’Università del Sudafrica, a scrivere un libro impietoso, intitolato Il fallimento della Corte penale internazionale in Africa. Gli altri incriminati sono signorotti locali della guerra come l’ugandese Joseph Kony, fondatore del sanguinoso «Esercito di resistenza del Signore», latitante nel Darfur. Una delle condanne più pesanti, 30 anni, è stata affibbiata a Bosco Ntaganda, sterminatore della provincia congolese dell’Ituri. Il 14 dicembre 2022 è stato trasferito in Belgio dove sconterà la pena.

Jean-Pierre Bemba Gombo, accusato di crimini di guerra nella Repubblica Centrafricana, è stato assolto, mentre Mahamat Said Abdel Kani, consegnatosi a L’Aja nel 2021, Alfred Yekatom e Patrice-Edouard Ngaïssona sono sotto processo. Ahmad al-Faqi al-Mahdi, che ha ammesso di avere compiuto crimini a Timbuktù, in Mali, è uscito dal carcere l’anno scorso godendo di uno sconto di pena. Le Filippine hanno poi sconfessato la Corte dopo le accuse all’ex presidente Rodrigo Duterte per la campagna contro la droga con l’eliminazione fisica dei trafficanti. I fallimenti dei casi aperti per l’Afghanistan sulle eliminazioni mirate della Cia e gli attacchi israeliani nei territori palestinesi, con Stati Uniti e Israele sul banco degli imputati, dimostrano che la Corte ha grandi difficoltà a occuparsi di tutti i crimini a 360 gradi. Durante la presidenza Trump, al precedente procuratore capo, Fatou Bensouda, veniva negato l’ingresso negli Usa. «È vero che i risultati fanno desiderare: non sono molti i mandati di cattura e soprattutto le sentenze e custodie in carcere» conclude Del Vecchio. «La Corte, senza una forza di polizia, dipende dagli Stati. Se questi non collaborano si può fare ben poco».

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