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Processo a Conte

Sono tanti gli errori commessi dal premier, assetato di visibilità. Fra troppi commissari straordinari, poche mascherine e ancor meno tamponi, ciò che vince è l’impreparazione del governo. Presto, però, arriverà l’inevitabile resa dei conti.


Era l’assillo degli esordi: «Dicono che sono un avvocato semisconosciuto, ma ho avuto centinaia di clienti importanti». Un peccato di vanità. Perché, dopo aver varcato la soglia di Palazzo Chigi, il difensore dei poteri forti ha rinnegato il passato: meglio diventare l’«avvocato del popolo». Ma adesso Giuseppe Conte si prepara, suo malgrado, all’ennesimo ruolo processuale: quello di imputato eccellente. E se la storia forse lo assolverà, come arringava Fidel Castro, i contemporanei s’arrovellano: di fronte al coronavirus, il giurista di Volturara Appula è stato un valoroso e capace condottiero o un tremebondo e inadeguato Capitan Tentenna? È vero: la retorica nazionale ci impone di essere tutti uniti. «Stringiamoci a coorte» recita l’inno tricolore. Ma sorvolare sugli inciampi dei giallorossi sarebbe da farisei. Oltre che dannoso. Perché ora da quegli errori bisognerebbe apprendere. E pure in fretta.

Dunque si alzi, imputato Giuseppi. Cominciamo dall’inizio di questa storia. Ovvero, dalla fine dello scorso gennaio. Mentre un inedito tepore riscalda l’inverno, due vacanzieri cinesi risultano positivi al Covid-19. Un giorno dopo, il 31 gennaio, il governo dichiara il conseguente «stato di emergenza». Durerà sei mesi. Quella coppia di turisti ha viaggiato per mezza Italia. C’è il timore che abbiano inconsapevolmente appiccato un focolaio. Per questo, il presidente del Consiglio si attribuisce poteri speciali. E nomina, come primo atto di una «consulentite» destinata a farsi acuta, l’immancabile commissario alla montante emergenza. Il prescelto è il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. Lo sappiamo, vostro onore, che sembra passato un secolo. L’immagine del volto rubicondo di Borrelli e la sua patriottica felpa blu sono ormai il nuovo focolare. L’attesa del bollettino quotidiano s’è fatta straziante. Ma è proprio alla fine dello scorso gennaio che tutto comincia.

Il Paese si prepara ignaro a un altro Festival di Sanremo. Intanto, Giuseppi proclama un inusitato «stato di emergenza». Serve a gestire eventi eccezionali e imprevisti. Come una pandemia, appunto. Il premier, grazie a quei superpoteri, può perfino sottrarre la libertà ai cittadini. Ed è quello che avverrà, con colpevole ritardo, oltre un mese dopo. Giuseppi, già allora, sa che la situazione rischia di degenerare. Tanto da giustificare misure epocali. Addirittura il giorno prima, lo scorso 30 gennaio, aveva deciso di sospendere i voli tra l’Italia e la Cina, dove c’erano 170 morti.

«Non ci siamo fatti trovare impreparati» gongolava in conferenza stampa. Il governo è «vigile e attento». Meglio: all’avanguardia. «Non ci risulta che nessun paese europeo abbia adottato una misura simile». Il motivo è semplice. Lo spiega il 22 febbraio il professor Walter Ricciardi, che siede nel comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale dalla sanità: «Come ribadito a più riprese dall’Oms, è una decisione che alla base non ha evidenza scientifica. Anzi, può essere controproducente. Tramite altri scali internazionali, possono comunque entrare persone provenienti dalla Cina. Si finisce per perdere il controllo».

Elementare, Watson. Solo che l’avanguardista Giuseppi non c’aveva pensato. L’implicita ratifica della cantonata avviene due giorni dopo. Il ministro della Sanità, Roberto Speranza, nomina il polemico Ricciardi «Consigliere per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali». Da quel momento, diventerà l’alfiere governativo nella lotta al coronavirus. Appena insediato, sarà proprio lui a bacchettare il Veneto. A Vo’ Euganeo, il primo focolaio italiano assieme alla lombarda Codogno, la Regione ha deciso di fare i tamponi anche agli asintomatici. «Un errore» giura il neo consulente. Che ha portato «confusione e allarme sociale».

Un barlume metodologico rischiara finalmente le oscure notti dei giallorossi: test solo ai manifesti casi di Covid-19. La linea epidemiologica è tracciata. Invece, a Vo’ lo screening di massa è salvifico. Il 13 marzo nel paesino del padovano non si registrano nuovi casi. Un mezzo miracolo. E il 22 marzo, dopo che l’Italia ha superato la Cina per numero di contagi, Ricciardi rettifica: tamponi anche a chi non ha i sintomi. «Partiamo dalla prossima settimana» annuncia. Ma quando il governo decide di non ostacolare la nuova rotta, si scopre l’inevitabile: mancano reagenti, kit e bastoncini chimici. Siamo impreparati, un’altra volta.

Eppure già il 27 gennaio, ospite di un’estasiata Lilli Gruber a Otto e mezzo, il premier assicura: «Siamo prontissimi, abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». Due mesi più tardi, con un’intervista al quotidiano spagnolo El País, ratifica: «Se tornassi indietro, rifarei tutto allo stesso modo». Dunque, per esempio, lascerebbe nuovamente sprovvisti i medici di mascherine. Perché mentre gli altri Paesi, lo scorso febbraio, iniziano a requisire scorte e intimare protezionismo, il governo ragiona alla medicea: «Del doman, non v’è certezza». Così la vitale questione viene delegata a Borrelli. E dopo settimane di sbalorditiva penuria, il 14 marzo arrivano i primi dispositivi in Lombardia. Peccato siano inutilizzabili: «Sembrano un fazzoletto o un rotolo di carta igienica. E non sono marchiate Ce, Comunità europea» lamenta sgomento l’assessore alle Sanità lombarda, Giulio Gallera.

Delle strategiche forniture, quindi, comincia a occuparsi un altro commissario straordinario nominato all’uopo: Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, società statale che avrebbe trasformato da carrozzone a «moderna agenzia di sviluppo». Come il Wolf di Pulp Fiction, sarà lui a risolvere i problemi. Il 24 marzo, accanto a Conte, promette: «I nostri medici avranno finalmente munizioni per combattere questa guerra». L’ennesima Caporetto arriva però soltanto quattro giorni più tardi. Basta guardare il volto sfottente del governatore campano, Vincenzo De Luca, mentre sventola a favor di telecamera l’ultimo modello inviato a Napoli: «Ci hanno mandato le mascherine di Bunny il coniglietto. Io ci pulisco gli occhiali». E una settimana dopo le roboanti promesse giallorosse, perfino il presidente della Federazione italiana dei medici, Filippo Anelli, chiede di ridare indietro 620.000 pezzi: «Non sono dispositivi autorizzati per l’uso sanitario». Insomma, «è carta straccia». I medici uccisi dal coronavirus, intanto, sono già una settantina. I contagiati, quasi 10.000.

Giuseppi però sapeva che poteva finire così. Lo sapeva da fine gennaio. Perciò, allora, decide di attribuirsi poteri speciali. Ma il governo non appronta un piano. Né, tantomeno, prova ad anticipare gli eventi. Sembra in balia del destino. Nessun provvedimento è tempestivo. Nemmeno quello inviato il 3 marzo al governo dal Comitato tecnico scientifico, nato proprio per indicare a Palazzo Chigi il da farsi. Oggetto: l’ondata di contagi in due comuni a pochi chilometri da Bergamo, Nembro e Alzano Lombardo. Il verbale, che Panorama pubblica in esclusiva, rivela: «Il Comitato propone di adottare le opportune misure già adottate nei comuni della zona rossa anche in questi due comuni, al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue». Insomma, serve il metodo Codogno.

Capitan Tentenna però indugia. Chiede un approfondimento. I contagi, intanto, crescono. Il panico serpeggia. E i governatori nordisti chiedono misure drastiche. Giuseppi comincia a persuadersi solo il 7 marzo. La bozza del decreto, che sarà poi redatto a notte fonda, vieta ogni spostamento in Lombardia e in 14 province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Marche.
Ma cominciano a filtrare le indiscrezioni. La Stazione centrale di Milano viene presa d’assalto. Eppure il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, non interviene. Via libera a tutti.

A impedire l’esodo verso le terre natie non c’è né un soldato né un agente. Prima che le nuove misure entrino in vigore, migliaia di potenziali untori possono fuggire al Sud. Si ammassano nei convogli. L’assalto agli scompartimenti diventa un’altra istantanea del dilettantismo al potere. Merito di quella fuga di notizie. Già, ma chi è stato l’artefice? La vulgata retroscenista sembra concorde. Il colpevole è l’iperattivo portavoce del premier: Rocco Casalino. Che però, con un’altrettanto inusuale intervista al Corriere della sera, smentirà ogni accusa: «Falsità assolute».

Il decreto, alla fine, viene firmato da Conte solo il 9 marzo. Dall’appello del Comitato tecnico scientifico sono passati sei giorni. Giorni che trasformano Bergamo nella provincia italiana più colpita dal coronavirus. Giuseppi però continua a rincorrere. Fontana e Zaia implorano di «chiudere tutto». Ma Capitan Tentenna lascia decantare, ancora una volta, l’ulteriore stretta. Sono giorni assolati. Temperature quasi primaverili. Milioni di italiani vanno al parco. I più fortunati scelgono invece la montagna. Cosa c’è di meglio dello sci, per allentare la tensione? Le scuole sono ormai sbarrate. E i pargoli scalpitano. Fortunatamente gli impianti di risalita restano aperti. Ed ecco l’altro, esemplificativo, scatto: file chilometriche, impianti traboccanti, rifugi presi d’assalto. Gli epidemiologi continuano a rimproverare quelle sconsiderata gesta agli italiani. E non, piuttosto, al governo. Ma chi ha deciso di lasciare aperti giardinetti e seggiovie? Solo l’11 marzo l’impavido premier sguaina il decreto legge definitivo: viene chiuso tutto, o quasi. L’Italia intera diventa zona rossa. Tardi. Troppo tardi.

Il 18 marzo a Bergamo non c’è più posto nei cimiteri. I camion dell’esercito trasportano le salme in altre regioni. Ma è anche il giorno del «Cura Italia». Conte annuncia dunque una serie di misure per far rialzare il Paese. I centri studi parlano di un crollo del Pil almeno del 7%. Stavolta però è l’intera Europa a prepararsi a una profonda recessione. La Germania presenta un piano da 550 miliardi di euro soltanto per le imprese. E in Spagna si mobilitano altri 200 miliardi. Il nostro governo scodella invece un decretino omnibus da 25 miliardi. Si farà in fretta, almeno? Nemmeno quello. La pletora degli autonomi, a cui è promessa una mancetta da 600 euro, si arena nel solito pantano dell’Inps. E la cassa integrazione straordinaria, il bonus per le baby sitter, la sospensione dell’Imu e dei mutui. Promesse seppellite da circolari, commi e rimandi. Come migliore tradizione vuole.

Ma rifarebbe tutto, il nostro Giuseppi. Dopo essersi assegnato poteri straordinari, ridarebbe sovranità al nebuloso comitato tecnico scientifico e alla disarmata Protezione civile. Prenderebbe tempo prezioso per procrastinare ovvie decisioni. E mai e poi mai farebbe una zona rossa nella Bergamasca. E i tamponi solo ai sintomatici, ovvio. E niente mascherine a medici e infermieri. E le chiusure tardive. E i decreti nottetempo. Il premier, davvero, non ha nulla da rimproverarsi. «Siamo un modello» ripete agli italiani il professore prestato alla politica. Non s’adombra neanche se perfino la culla mondiale di stimati accademici come lui, ovvero l’università americana di Harvard, argomenta l’esatto contrario: la sua ricetta è stata fallimentare. Nessuna prevenzione, pochi test, azioni scoordinate: se c’è un modello da non seguire nel mondo, conclude lo studio, è proprio quello italiano.

L’incurante Giuseppi continua a menar vanti al cospetto della nazione. Burocratico, enfatico, citazionista. Come sempre. La postura e il tono solenne cominciano a rivelare la sue velleità: venire eletto nel 2022 presidente della Repubblica. Altro che Capitan Tentenna. Dopo aver silenziato maggioranza e opposizione, sarà lui e solo lui a condurre l’Italia fuori dall’«ora più buia», evocata con un temerario accostamento a Sir Winston Churchill. Così, finito sul banco degli imputati, Giuseppi propina un ulteriore garbuglio, la solita vanteria, l’ultima illusione. Certo, gli vanno concesse le attenuanti generiche. L’impresa, stavolta, era da intrepidi. Serviva un risoluto statista, non un balbettante premier scelto dal fato. La corte, a questo punto, si ritiri per deliberare. L’inesorabile verdetto sembra però già scritto.

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