Crescita ai minimi, inflazione galoppante, debito pubblico che lievita di circa 18,9 miliardi di euro ogni mese. E poi ancora i mercati finanziari in crisi, le risorse naturali razionate, il governo diviso. Dopo l’estate, i nodi verranno al pettine per Mario Draghi. E per l’Italia.
Tra conflitto in Ucraina, prezzi dell’energia fuori controllo, inflazione galoppante, Europa che non trova unità né sul «price cap» del gas né sullo scudo anti spread, siccità e risveglio della pandemia, pare si sia scatenata la maledizione biblica (peraltro l’invasione delle cavallette in Sardegna c’è davvero), siamo ostaggio dalla legge di Murphy per cui «Se qualcosa può andare storto, lo farà»? Un altro dubbio: è sufficiente Mario Draghi come garanzia per evitare il default dell’Italia?
Ancora: Draghi è la soluzione, o viste anche le tensioni politiche nel governo, ma soprattutto nei e tra i partiti della strana maggioranza, è parte del problema? Un termometro infallibile segna la temperatura politica e quella dell’incertezza economica in pericoloso rialzo: la Borsa a Milano ha archiviato il primo semestre perdendo un quarto della capitalizzazione, Wall Street ci ha «rimesso» il 30 per cento, peggior dato dal 1970. Draghi, come nel suo stile, aveva messo le mani avanti fin da marzo scorso quando disse: «Non siamo in un’economia di guerra ma dobbiamo prepararci».
Il Documento di economia e finanza, il Def, lo ha però scritto con Daniele Franco, il ministro dell’Economia, in una prospettiva di lacrime e sangue: «La guerra frena le prospettive di crescita dell’Italia: inflazione, caro energia, mancanza di materie prime rendono la situazione drammatica, i bisogni dei cittadini sono incombenti e le imprese soffrono. Il governo farà tutto quanto necessario». Ma senza scostamenti di bilancio, e a settembre si dovrà scrivere la nuova finanziaria. Sarà quello il momento peggiore anche perché il quadro di finanza pubblica, in Europa e nel mondo, si è ulteriormente incupito. Reggerà la maggioranza a scelte lacrime e sangue? Il settembre amaro costringerà Draghi, a colpi di razionamento, a dichiarare che siamo in un’economia di guerra. E lui avrà la forza di uscirne?
Lo spread balla oltre i 200 punti, i rendimenti dei Btp sono oltre il 3,5 per cento e l’euro resta anemico. Riassumiamo: il debito pubblico segna 2.759 miliardi di euro, circa il 152,6 per cento del Pil e cresce di 18,9 miliardi ogni mese (fonte Bollettino Banca d’Italia). Gli interessi, per ora, ci costano il 3,5 per cento del Pil, malcontati sono 66 miliardi. Su questa cifra c’è un’alea rilevantissima: ora che la Bce, Banca centrale europea, ha ritirato (tardivamente) il Quantitative easing, cioè l’acquisto titoli senza se e senza ma, e alza (ancor più tardivamente) i tassi d’interesse, che succede? Christine Lagarde è doppiamente prigioniera dello scenario di guerra e dell’incombenza del nostro mostruoso debito, annuncia uno scudo speciale per evitare che i Btp italiani diventino bersaglio e lo spread rimetta a rischio l’euro, ma la partita è assai complicata.
Lo scudo Bce, se la logica speculativa fosse corroborata da una opzione «militare», è sufficiente? L’inflazione non è né bassa né effimera ed è un peccato di colpevole sottovalutazione da parte della stragrande maggioranza degli economisti ormai adusi a guarnire le loro teorie con festoni di integrali, intesi come calcoli, ma poco inclini a guardare la realtà. La Banca centrale europea si muove in ritardo, la Federal Reserve lo fa con una tale energia da rischiare d’innescare la recessione, ma c’è l’obbligo di una stretta monetaria. In Italia l’aumento dei prezzi è dell’8 per cento, destinato a salire.
Siamo l’unico Paese dove dall’introduzione dell’euro i salari sono diminuiti (meno 3 per cento) e i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro capite più basso della storia italiana (attualizzando le cifre), Un disastro sociale. L’Istat prevede una perdita – se le cose non peggiorano – di almeno il 5 per cento del potere di acquisto. Ma per ora l’esecutivo non ha fatto nulla sul cuneo fiscale perché Daniele Franco, responsabile dell’Economia, sa che non ci sono soldi. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando, Pd, annuncia provvedimenti epocali, ma intanto si registra a maggio l’ennesimo calo di occupati (meno 49 mila) e il boom dei contratti a termine: oltre 3 milioni. Così Maurizio Landini, segretario della Cgil, scalda la piazza e ha chiesto almeno 200 euro netti di aumento per tutti.
Il governo elargisce bonus – alcuni li revoca come il 110 per cento e mette a rischio oltre 30 mila imprese, con le banche che chiedono ulteriori aumenti attorno al 5 per cento per lo sconto fiscale fino a incenerire l’utile atteso da chi ha fatto i lavori – e si sta svenando per rincorrere il caro-energia. Ha impegnato 30 miliardi; il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha dovuto ammettere: saliranno ancora i prezzi e non si può escludere che in autunno arriveremo al razionamento. L’Algeria, la nostra unica e parziale alternativa alle forniture moscovite, ha già chiesto al rialzo la revisione dei contratti; la sola risorsa è il carbone, che peraltro non estraiamo più dal Sulcis sardo.
Stessa cosa stanno facendo i tedeschi che rischiano un brusco stop. Berlino ha certificato che per la prima volta da 30 anni, la sua bilancia commerciale è in disavanzo. La Germania è il nostro primo partner commerciale: se si ferma l’export addio crescita italiana. Si continua a guardare a Draghi come la soluzione di ogni problema. Sullo sfondo c’è però la foto scattata all’ultimo G-7 di Madrid, con il premier da solo, seduto su un panca del museo del Prado, mentre telefona; stava decidendo di rientrare in fretta a Roma per tenere a bada una maggioranza sempre più rissosa. Il ritratto della solitudine del numero primo. Anche i suoi consiglieri economici, a partire da Francesco Giavazzi, forse destinato alla presidenza dell’Eni, danno segni di stanchezza.
E lo stesso Giavazzi, con una conversione a «U» ha emesso un severo giudizio sulla politica anti-inflazione della Bce, affermando: «Lo spread e l’aumento dei tassi finiranno nel medio termine per ridurre la domanda privata». Dovrebbe ricordarsi di un suo maestro, Rudi Dornbusch, economista tedesco naturalizzato americano che previde: «La critica più seria all’unione monetaria europea è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi. Per questa via diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia)». Difficile spiegare a Draghi, che nel 1992 avviò l’epocale svendita di Stato con le privatizzazioni (giusto trent’anni fa ci fu il famoso meeting sul «Britannia», il panfilo reale di Elisabetta II) che la previsione di Dornbusch è diventata realtà.
Ma del resto le «profezie» di questa che è stata la mente più lucida tra gli economisti di fine secolo non sono mai piaciute. Era ospite fisso del Meeting Ambrosetti a Cernobbio, ma sempre nel ’92 – quando l’allora premier Giuliano Amato nottetempo alleggerì del 6 per mille i conti correnti degli italiani – preconizzò l’attacco speculativo alla lira: non lo invitarono più. Ha fatto in tempo a spiegare a Giavazzi, che non deve averne parlato a Draghi, che sarebbero successe altre cose entrando nell’euro: «L’Italia, con una moneta sopravvalutata, si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira».
Difficile dirlo a Draghi il privatizzatore e poi presidente della Bce che con il motto Whatever it takes ha avviato una politica di espansione monetaria illimitata. Non tenne conto degli avvertimenti di Milton Friedman, il re dei monetaristi, il consigliere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che osservava: «L’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario, è e può soltanto esser prodotto da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione». Il Draghi banchiere ha fatto l’opposto di ciò che servirebbe oggi al Draghi presidente del Consiglio.
L’Italia ha un disperato bisogno di crescere. Daniele Franco continua a tifare per un 3,1 per cento d’incremento del Pil. Ma nessun altro accredita tale previsione. L’Ocse vede un 2,5, la Banca d’Italia il 2,6 ma soprattutto l’Istat certifica che, pur in diminuzione, il rapporto deficit-Pil resta altissimo: al 9 per cento a fronte di una pressione fiscale che continua a salire (più mezzo punto nel primo trimestre del 2022). Ma il governo che ha puntato tutto sul Pnrr, e per ora non pare avere la forza di invertire il trend anche perché gli obbiettivi, e i costi, iniziali del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono del tutto superati.
Si è levato un coro: da Carlo Bonomi (Confindustria) ad Attilio Fontana (presidente Lombardia), dal ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini a quello dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti: sia pure con diverse argomentazioni in molti hanno posto l’esigenza di un «tagliando» al Piano. Ma da palazzo Chigi nessuna indicazione. Da Bruxelles il commissario all’Economia Paolo Gentiloni (Pd) ha gelato tutti: «O attuate il Piano così com’è e i partiti non devono frenare le riforme, o sarà recessione». Dunque l’Italia e Draghi si trovano con l’acqua alla gola. Oggi deve controllare il debito, gli effetti dell’inflazione e salvare i conti. Per farlo forse dovrà smentire sé stesso. Sempre che i partiti gli permettano di farlo. Dalle parti del Quirinale – si capisce perché Sergio Mattarella sia stato rieletto – si pensa di allungare la legislatura per consentire al premier in carica di restare a palazzo Chigi anche dopo il voto del 2023. Ma qui la parola passa dalla partita doppia al pallottoliere dei voti.
