Mario Draghi, già storico liquidatore di «gioielli di Stato» dell’economia, da capo del governo uscente gestisce partite cruciali per il patrimonio pubblico (Alitalia, Autostrade, Mps, ex-Ilva). E a pagare il conto di finanziamenti e «rinazionalizzazioni» saranno comunque i contribuenti.
Nei dintorni di palazzo Chigi e di via XX Settembre li chiamavano i quattro dell’Ave Maria, speriamo che non si trasformino nel poker dell’Apocalisse. Hanno molto da fare in questi giorni per cercare di sistemare partite aperte che creano non poco fastidio. Sono una sorta di nemesi delle privatizzazioni di Draghi che tornano indietro sotto forma di debiti. Mario Draghi, Francesco Giavazzi, Daniele Franco ministro dell’Economia e Alessandro Rivera direttore generale del Tesoro hanno passato ore chiusi in conclave a spostare pedine per evitare che i partiti interferissero. Oltre 350 poltrone in altrettante aziende di Stato, e tante partite contabili in sofferenza. Ne viene in mente una, minore, che però sta diventando di una qualche attualità: Amco. Chiude il bilancio 2021 con 500 e passa milioni di perdite. È una delle «riserve» di Alessandro Rivera – ora a rischio spoils system – che dovrà gestire, se Daniele Franco non si sbriga a chiudere la partita, con il nuovo governo uno dei buchi neri del bilancio dello Stato, il Monte dei Paschi di Siena. Rivera è molto amico del Partito democratico anche se ha cominciato la carriera con Giulio Tremonti, ma è un Draghi-boy a tutti gli effetti. Usa Amco per pulire con i soldi del Mef i conti delle banche: lo ha fatto con la Popolare di Vicenza, lo ha fatto alla grandissima con Montepaschi. Compra i crediti deteriorati e prova a recuperarli, solo che pare che Amco sia generosa nelle valutazioni. La speranza era che Marina Natale – «lady Unicredit» visto che lì ha fatto la sua carriera – ora al vertice della finanziaria del Mef, potesse vendere il Monte ad Andrea Orcel (Unicredit) togliendo un bell’imbarazzo al Tesoro. E invece il cerino di Siena è rimasto in mano a Rivera con Bruxelles che ha acceso un faro sui possibili aiuti di Stato.
È una partita delicata perché c’è ancora da capire se il presidente del Consiglio uscente abbia avuto nelle tormentatissime vicende di Siena, come in quelle della Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, un qualche ruolo quando era governatore della Banca d’Italia, e anche dopo da presidente della Bce. Giuseppe Mussari, ex presidente del Monte, Antonio Vigni ex direttore generale e Gianluca Baldassarri, ex responsabile area finanza, sono stati assolti dalla Corte d’Appello di Firenze, come già era avvenuto a Milano, perché «il fatto non sussiste» dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza in merito all’acquisto di Antonveneta.
Dunque la Banca d’Italia sapeva o perlomeno era in condizione di sapere cosa stava succedendo a Siena. Sapeva anche che il prezzo pagato per Antonveneta – 9 miliardi di euro versati alla spagnola Santander il 30 maggio 2008 – avrebbe scassato i conti del Monte? All’epoca governatore della Banca d’Italia era Mario Draghi che ora deve trovare oltre un miliardo e mezzo per salvare il Monte. A oggi la banca senese è costata agli italiani 700 euro a famiglia: 5,4 miliardi per una prima capitalizzazione, 2,4 miliardi di abbuono fiscale, 8,1 i crediti incagliati girati ad Amco, la società pubblica per la gestione dei crediti deteriorati. Ora c’è il nuovo aumento di capitale da 2,5 miliardi di cui lo Stato è costretto a sottoscrivere almeno 1,6 miliardi. Ma è solo uno dei tanti casi che appannano il bilancio di Draghi il privatizzatore.
Era il 2 giugno 1992, a bordo del panfilo reale Britannia l’allora giovane direttore generale del Tesoro dette il via alle privatizzazioni. Anche allora c’erano quattro cavalieri: Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e appunto il giovane Draghi. Ha raccontato Fabiano Fabiani, allora capo di Finmeccanica: «Quando Draghi m’incontrava nei corridoi diceva: cosa hai venduto oggi?». L’ansia da privatizzazione è stata una stagione esasperata. Lo Stato si è liberato di molte attività, ma spesso ha buttato via il bambino con l’acqua sporca, arrivando a svendere tecnologie di altissimo valore.
Il caso della Stet, della Helsag Baley, della stessa Alfa Romeo, asset girati al peggiore offerente come il polo agroalimentare Sme, come le Acciaierie di Piombino, l’Ilva di Taranto, Autostrade e per certi versi anche Alitalia, cui si aggiungono le mezze privatizzazioni come quelle di Eni e di Enel e di Finmeccanica che ora si chiama Leonardo. Tra il ’92 e il 2005 lo Stato ha venduto una trentina di gruppi industriali incassando 100 miliardi di euro che hanno consentito un risparmio cumulato sugli interessi sul debito pubblico di circa 30 miliardi. Tutte quelle aziende erano state messe in piedi e fatte funzionare con i soldi dei contribuenti. Ma Draghi era in missione «per conto del debito» e doveva vendere, in qualche caso svendere. A oggi di quelle privatizzazioni ne è tornata a casa una bella fetta. Basta il Monte dei Paschi – che è stato pubblicizzato – per dare una bella botta.
Ma l’istituto non è solo. Si prenda l’Ilva di Taranto. Lo scorso anno è stata rinazionalizzata versando un miliardo, il 5 agosto con il decreto Aiuti-bis Draghi è stato rifinanziata con un altro miliardo. I Riva la pagarono 2 miliardi versati in più tranche. Nel frattempo i costi accollati allo Stato sono enormi. Uno studio dello Svimez ha calcolato che tra il 2013 e il 2019 la crisi dell’Ilva è costata 23 miliardi di euro, circa lo 0,2 per cento di Pil all’anno.
Un’altra privatizzazione voluta da Draghi adesso presenta il conto. Trattasi di Autostrade. Vicenda complessa che ha portato guadagno alla famiglia Benetton. Atlantia – la loro holding – nella semestrale pubblicata qualche giorno fa evidenzia che la plusvalenza derivante dalla cessione di Aspi (la controllante di Autostrade) è pari a 5,3 miliardi. I Benetton, quando se le comprarono nel 2000, pagarono 2,4 miliardi all’Iri, poi fecero un aumento di capitale interamente a carico della società, che portò il prezzo di cessione a 8 miliardi.
In 20 anni i Benetton hanno intascato 5 miliardi di euro di utili. Ora hanno reso Autostrade a Cassa Depositi e Prestiti che, con i due soci di minoranza, ha pagato 8 miliardi cash, più un rimborso di mancati incassi causa Covid di 254 milioni, si è accollata debiti per 8 miliardi e deve fare manutenzione per altri 7. Lo Stato ha venduto Autostrade a 8 miliardi, la ricompra a 16 avendo rinunciato a 5 miliardi d’incassi, dovendo investire 7 miliardi con 43 morti, quelli del ponte Morandi, in omaggio.
C’è ancora il romanzo senza fine di Alitalia. Mediobanca ha fatto un conto: in 47 anni è costata allo Stato 13 miliardi. Le privatizzazioni che l’hanno riguardata non si contano. Ora si chiama Ita e va come al solito salvata. Se la contendono due cordate: Msc (il colosso del trasporto marittimo) e Lufthansa, opposte al fondo Certares con Air France-Klm e Delta Airlines. Draghi è intenzionato a chiudere prima di andarsene, il suo ministro Daniele Franco rifiuta le proposte di Msc e Lufthansa, che vogliono pagare 950 milioni di euro e prendersi tutto, perché «non sono all’altezza». Certares offre gli stessi soldi, ma si accontenta del 55 per cento del capitale.
Complicatissima è la gestione di un’altra delle eredità delle privatizzazioni: Tim fu Telecom. Pietro Labriola a.d. di Tim ha deciso di scorporare la gestione della telefonia dalla rete che finirà a Open Fiber, ovvero Cassa depositi e prestiti. Si parla di una ventina di miliardi. Quando nel ’97 Telecom fusa con Stet fu venduta, lo Stato incassò 14 miliardi. Lasciamo perdere il successivo romanzo nato dalla «madre di tutte le privatizzazioni» in cui alcuni si sono molto arricchiti e i contribuenti nonché utenti molto ci hanno rimesso.
Ah, sia detto per inciso: tra qualche mese ci sono i rinnovi dei vertici di Leonardo, Poste, Eni ed Enel: le nomine che i quattro dell’Ave Maria volevano gestire in proprio, ma dimostrano che lo Stato venditore si è tenuto comunque tanto. E ci sono luci, i bilanci miliardari degli operatori energetici, e molte ombre (Saipem, Fincantieri per dirne due) su un volume di affari che supera i 120 miliardi di euro. Complessivamente le società pubbliche partecipate – l’ultima stima dell’Istat risale al 2019 – sono 8.175 per 932 addetti. Il ministero dell’Economia vanta 3.500 partecipazioni per 583 mila dipendenti. Quanto ci rimette? Ah, saperlo. Quando si dice le privatizzazioni.