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Florida e Ohio: Biden sempre più favorito

Florida e Ohio: Biden sempre più favorito

Alle primarie democratiche degli Stati-chiave per la nomination, il candidato moderato risulta il primo nei sondaggi. Eppure Sanders non molla. E lo attacca, mettendo in luce la sua ipocrisia.


Dopo il mini Super Martedì del 10 marzo, la strada di Bernie Sanders verso la nomination democratica si è fatta decisamente in salita. Il senatore del Vermont ha vinto soltanto nel North Dakota, mentre Joe Biden è riuscito a espugnare Mississippi, Missouri, Idaho e Michigan. Nonostante il vincitore delle primarie dello Stato di Washington non sia ancora stato dichiarato (essendosi verificato un testa a testa), è chiaro che l’ex vicepresidente americano corre ormai abbastanza spedito verso la nomination.

Secondo il conteggio di Nbc News, Biden deterrebbe al momento 860 delegati, contro i 706 di Sanders. Per quanto matematicamente il senatore socialista non sia ancora fuori gioco, sono due gli aspetti seriamente preoccupanti per lui. In primo luogo, il fatto che abbia perso malamente in Michigan: Stato ricco di colletti blu impoveriti, su cui aveva massicciamente scommesso. In secondo luogo, è lo stesso calendario delle prossime tornate elettorali a risultare particolarmente ostico per il senatore del Vermont. Martedì 17 marzo si voterà contemporaneamente in Arizona, Illinois, Florida e Ohio. Quattro Stati che, in totale, metteranno in palio un elevato numero di delegati (557). Quattro Stati in cui, tuttavia, Sanders può riporre oggettivamente poche speranze.

Cominciamo col dire che, alle primarie democratiche del 2016, il senatore socialista venne sconfitto da Hillary Clinton in tutte queste quattro aree: aree che, secondo i sondaggi disponibili, anche oggi vedono Sanders nettamente indietro. Ciononostante, al di là delle considerazioni generali, sono due gli Stati più interessanti da monitorare martedì: Florida e Ohio. E questo non tanto per il pur considerevole numero di delegati che offrono (la prima 219 e il secondo 136) ma soprattutto per il fatto che si tratta di territori solitamente decisivi per conquistare la Casa Bianca in sede di elezioni novembrine.

Entrambi sono popolosi Swing States: Stati, cioè, in bilico che possono rivelarsi dirimenti per ottenere la presidenza. D’altronde è dal 1964 che chi vince in Ohio alle presidenziali riesce ad espugnare la Casa Bianca, mentre è dal 1996 che ciò accade anche per la Florida. In tal senso, è chiaro che, nelle attuali primarie democratiche, vincere in queste aree risulta importante anche per accreditarsi come candidati in grado di disarcionare Donald Trump il prossimo novembre. Eppure – come detto – per Sanders la strada si profila nettamente in salita.

Partiamo dalla Florida. Secondo una recente rilevazione dell’Emerson College, nel cosiddetto Sunshine State Biden risulterebbe primo con il 65% dei consensi, seguìto dal senatore socialista inchiodato a un misero 27%. A prima vista, il dato potrebbe risultare sconcertante, visto che nelle attuali primarie democratiche Sanders, pur avendo perso parzialmente il sostegno del suo storico elettorato bianco, ha incrementato le simpatie tra gli ispanici: quegli ispanici che, in Florida, superano il 23% della popolazione.

Il punto è che storicamente buona parte dell’elettorato ispanico del Sunshine State risulta caratterizzato da un acceso anticomunismo: un anticomunismo che tradizionalmente viene diretto contro il castrismo ma che negli ultimi tempi ha trovato un bersaglio anche nel regime venezuelano di Nicolas Maduro. Sotto questo aspetto, Sanders si è ripetutamente contraddistinto per una certa ambiguità verso i governi di Caracas e L’Avana. Il fatto stesso che ami definirsi «socialista» è un elemento che in Florida non è mai stato granché digerito. Non sarà del resto un caso che, alcuni mesi fa, la sezione locale del Partito Democratico avesse mostrato una certa insofferenza verso l’ambiguità di Sanders in materia.

Un’ambiguità che persiste ancora oggi, nonostante il senatore del Vermont abbia più volte cercato di distanziare il proprio «socialismo democratico» da quello di stampo venezuelano. Ecco: tutto questo spiega probabilmente i pessimi risultati sondaggistici rimediati da Sanders in Florida. Uno Stato in cui è quasi impossibile che martedì riesca ad ottenere una vittoria. Tra l’altro, come sottolineato su Politico da Marc Caputo il 12 marzo, la maggiore impopolarità in loco per il senatore sarebbe nutrita proprio dagli ispanici: nella fattispecie, l’analista cita come particolarmente problematica un’intervista del mese scorso, in cui Sanders si è rifiutato di prendere una posizione chiara sulla rivoluzione castrista.

Più contendibile dovrebbe teoricamente rivelarsi l’Ohio. Dopo il Michigan, il cosiddetto Buckeye State è il secondo Stato della Rust Belt a esprimersi in queste primarie. E, come abbiamo parzialmente visto, proprio sulla Rust Belt Sanders ha sempre scommesso moltissimo, cercando di accreditarsi come l’unico candidato realmente in grado di rappresentare le istanze dei colletti blu bianchi impoveriti. Non trascuriamo del resto che, secondo la National Association of Manufacturers, l’Ohio detenga il 13% della propria forza lavoro impiegata nel settore manifatturiero (di contro al solo 4% della Florida).

Tuttavia, anche in Ohio, gli scenari per il senatore socialista non risultano ottimali. Secondo l’Emerson College, si collocherebbe al secondo posto con il 35% dei consensi, laddove Biden sarebbe primo con uno schiacciante 57%. Le ragioni di questa situazione sono molteplici. In primis, non dimentichiamo che, se alle primarie del 2016 Sanders aveva vinto di misura in Michigan, non era invece riuscito ad espugnare l’Ohio. In secondo luogo, non è improbabile ritenere che – questa volta – l’Ohio possa imitare il comportamento del Michigan, consolidando così nei fatti il vantaggio di Biden tra i colletti blu. Insomma, una vittoria nel Buckeye State garantirebbe all’ex vicepresidente di confermarsi in grado di costruire una coalizione elettorale eterogenea e gli consentirebbe di rafforzare la sua presa sui ceti operai. Quei ceti che, in parte, stanno abbandonando Sanders e che, in parte, stanno anche tuttavia trasmigrando verso Trump.

Risulta abbastanza chiaro che, qualora Biden martedì riuscisse realmente a conquistare Florida e Ohio, per il senatore socialista la nomination diverrebbe poco più di un miraggio. Eppure, nonostante la dura sconfitta già rimediata settimana scorsa, Sanders ha deciso di restare in corsa. Nel dibattito televisivo del 15 marzo, i due rivali si sono affrontati duramente. Il senatore ha criticato Biden per il suo trascorso sostegno alla guerra in Iraq, accusandolo inoltre di aver votato a favore del salvataggio delle banche nel 2008 e di aver in passato difeso dei tagli al sistema previdenziale.

Soprattutto su quest’ultimo punto l’ex vicepresidente si è trovato in difficoltà: nonostante Biden abbia ripetutamente negato, nelle ore successive sono stati diffusi sul web discorsi in cui, da senatore del Delaware, invocava effettivamente sforbiciate alla previdenza sociale. Nonostante lo scontro a tratti acceso, è difficile tuttavia ritenere che l’ultimo dibattito sarà in grado di ribaltare nettamente la situazione a favore di Sanders. Bisognerà quindi innanzitutto vedere come andrà la tornata elettorale del 17 marzo.

Nel caso andasse male, il candidato socialista potrebbe restare comunque in corsa. Ma, anche qualora decidesse di ritirarsi e dare formalmente il proprio endorsement a Biden, è tutto da dimostrare che ciò porterebbe a una reale pacificazione nel campo democratico. Non dimentichiamo che una parte cospicua degli elettori di Sanders assai difficilmente accetterebbe di compattarsi attorno all’ex vicepresidente. E lo stesso Sanders potrebbe in realtà avere tutta l’intenzione di scatenare una guerra di logoramento contro l’attuale rivale. Il senatore del Vermont non ha certo digerito le manovre, messe in campo dall’establishment del Partito democratico, ai propri danni. E, sotto quest’aspetto, vale la pena di ricordare un precedente storico.

Alle primarie repubblicane del 1976, l’allora presidente Gerald Ford vinse d’un soffio sull’ex governatore della California, Ronald Reagan. Quest’ultimo, pur accettando la sconfitta e dando il suo endorsement a Ford, si guardò poi bene dall’aiutarlo concretamente nella campagna elettorale per le presidenziali di quell’anno: un tale elemento indebolì non poco il presidente in carica che, a novembre, si ritrovò defenestrato dal democratico Jimmy Carter. Ecco: non è affatto escluso che Sanders stia meditando una strategia simile, per azzoppare Biden. E Trump evidentemente ci spera.

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