Per ora la Ue avanza in ordine sparso sul campione ungherese del sovranismo rieletto: c’è chi inorridisce, chi lo blandisce. E chi opta per un più efficace pragmatismo.
Il fianco orientale dell’Unione europea è compromesso? Quinte colonne sino-russe annidate sul Danubio paralizzano i meccanismi decisionali europei, della Nato e di tutte le altre piattaforme multilaterali di cui fa parte Budapest? Sono alcune delle riflessioni che circolano all’indomani della vittoria elettorale di Viktor Orbán in Ungheria. In molti, poi, accostano l’affermazione del premier ungherese alla vittoria del filo-russo Aleksandar Vucic in Serbia. Quest’ultimo tutta via non fa parte della Ue. È, al più, «ante portas», mentre Orbán è «intra moenia».
Veniamo a Orbán : è indubbio che negli ultimi anni abbia accentuato la sua curvatura verso Mosca e Pechino, e che la sua ingombrante figura ricorra nelle conversazioni a Bruxelles e sui principali media occidentali. È altrettanto ovvio che la sua recente vittoria elettorale sia una doccia fredda per chi si augurava una sua rapida uscita di scena. Tuttavia, voti alla mano, non è un’opzione data, e non resta che riaprire il dossier-Orbán. Al momento, è possibile distinguere quattro diversi tipi di atteggiamento.
C’è chi chiede il pugno di ferro. È l’approccio di chi chiede di marginalizzarlo ulteriormente, lui che già da anni è «dietro la lavagna». Al momento, però, l’espulsione dell’Ungheria dalla Unione o dalla Nato non è affatto all’ordine del giorno, e al più si leggono inviti, come quello di Gideon Rachman sul Financial Times, ad aumentare la pressione su Orbán. Budapest continua a far parte anche di altre piattaforme multilaterali, come la Three Seas Initiative, il cui centro di impulsi e principale finanziatore restano gli Stati Uniti.
C’è chi esulta. Ad applaudire Orbán oggi è soprattutto chi, in Europa e anche in Italia, vede nella sua vittoria la sostanziale tenuta del blocco sovranista, in crisi da tempo nel resto del Vecchio continente. Quasi a dire che, con il sovranismo, toccherà invece fare i conti e scendere a patti. Ma è una lettura frettolosa e carica di aspettative, che il più delle volte tradisce l’insicurezza di chi avverte che il terreno sotto i piedi si faccia instabile.
C’è chi poi confida in una provvidenziale «mutazione» di Orbán. Orbán si rivela infatti un camaleonte che ha cambiato registro numerose volte registro nel corso della sua carriera politica. Da studente universitario, trascorse qualche mese a Oxford beneficiando di una borsa di studio stanziata da George Soros. Soros fu a sua volta finanziatore di Fidesz, l’alleanza dei giovani democratici messa in piedi dal futuro premier. Acqua passata: il sodalizio tra Orbán e Soros è infranto da tempo, la loro ostilità è ampiamente nota, e oggi il leader ungherese è l’icona del putinismo più vistosa all’interno del consesso europeo. L’impressione, comunque, è che la ricerca del consenso domestico, in Orbán, faccia sempre premio sull’ideologia. In altre parole, l’uomo può cambiare di nuovo pelle se ritiene che ciò gli convenga.
C’è, infine, chi tiene aperte le comunicazioni con Budapest. È il caso di Emmanuel Macron, che ha mostrato una certa cordialità nel corso dell’incontro ufficiale con Orbán sul finire dello scorso anno all’Eliseo, così come nel marzo dello scorso anno, a margine del vertice del Consiglio europeo. Anche più sfumata appare la posizione della Germania, che però rimane il principale riferimento economico di tutto il fianco orientale dell’Unione ed è di gran lunga la prima destinazione dell’export magiaro. I numeri parlano chiaro: nel 2020, l’Ungheria ha venduto beni e servizi in Germania per circa 30 miliardi di euro, quasi sei volte il volume di esportazioni verso la seconda destinazione (la Slovacchia). Berlino, quindi, dispone degli argomenti più forti rispetto ad Orbán. Tra l’altro l’ipotesi che i cinesi, che hanno fatto massicci investimenti in Ungheria, possano aumentare all’infinito il loro sostegno al riconfermato premier appare oggi meno verosimile. Come la Ue si è compattata in difesa della Lituania, oggetto di ritorsioni economiche da parte della Cina, così il sostegno cinese ad Orbán si tradurrebbe in una ulteriore divaricazione tra Cina e Europa. Proprio ciò che Pechino sta provando a scongiurare in ogni modo (e senza particolare successo).
Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
