Sono stati esponenti di punta nei partiti che da sempre esibiscono superiorità morale. Oggi, grazie alla rete di conoscenze e all’autorevolezza acquisite, li ritroviamo al centro di strategie (e affari) globali. Certo, c’è chi riciclandosi promuove alcuni Paesi in cerca di legittimazione, con accortezza. E chi invece si fa prendere la mano. Magari finendo coinvolto in inchieste come il Qatargate…
In Francia le chiamano pantouflage, in Inghilterra revolving doors e in Italia porte girevoli. Poco cambia, però: si esce dall’uscio e si rientra dalla finestra. Come ha fatto l’ex europarlamentare Antonio Panzeri alla fine del suo mandato. Per continuare a frequentare l’emiciclo in vetro e acciaio di Bruxelles, ha indossato misericordiose vesti: fondatore di Fight Impunity, Ong dedita a quei diritti umanitari sempre sbandierati durante la carriera politica. Una perfetta copertura, lo accusano i magistrati belgi, per ripulire l’opaca immagine del Qatar in cambio di fenomenali mazzette.
Lo scandalo che demolisce la già rivedibile fama delle istituzioni europee è un intrigo cinematografico: valigette piene di danaro, spregiudicati portaborse e l’incantevole Eva Kaili, vicepresidente dell’assemblea ormai destituita, nel ruolo di diabolica femme fatale. Tutti di sinistra. O sinistrissima. Vedi l’ex sindacalista Panzeri: già socialista, poi Pd, infine con Articolo 1 di Roberto Speranza e Pierluigi Bersani. Tre mandati da eurodeputato, seguiti da sfrenato lobbismo mascherato da prodigalità.
Non è certo l’unico. A Bruxelles frotte di deposti parlamentari collaborano, lecitamente, con associazioni come Fight Impunity. Porte girevoli: da eletti del popolo a tutori di interessi particolari, senza soluzione di continuità. Transparency International, sentinella della corruzione, rivela: quasi un terzo dei vecchi eurodeputati lavora per organizzazioni registrate come lobby dell’Ue. La vertiginosa percentuale sale con gli ex commissari. Dei 27 in carica fino al 2014, ad esempio, la metà è stata arruolata da aziende, banche o gruppi di pressione. Compreso l’ex presidente, José Manuel Barroso, chiamato da Goldman Sachs.
Seccante, ma consentito. Fino a quando non emerge una degenerazione truffaldina come il Qatargate, l’ultimo scandalone della gauche caviar italiana in trasferta. Vista la nostra ragguardevole fama, i continentali già ci ricamano: l’inchiesta belga viene ribattezzata «The Italian job», dal titolo della pellicola hollywoodiana. Perfino Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici in Europa, «Er Moviola» in patria, è costretto a intervenire: «I corrotti sono di destra e di sinistra» concede. «Ma è drammatico che questi episodi di corruzione riguardino i lavoratori che hanno bisogno di tutela». Ci pensa però il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, ad allargare l’orizzonte: «Vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali non è solo triste, ma dice molto sul perché le persone non si fidano e non ci credono più». Inchieste a parte, riemerge dunque il domandone: passi la liceità, ma è opportuno che si adoperino per agevolare Stati in cerca di legittimazione e affari?
Restiamo al Qatar. Qualche giorno prima degli arresti a Bruxelles, emerge l’ultimo retroscena su Massimo D’Alema: consulente di una cordata di imprenditori capeggiata da Ghanim Bin Saad Al Saad, liquidissimo businessman di Doha, per l’acquisto della raffineria di Priolo. Ma è solo l’ultima incursione dell’ormai scatenato «Baffino». A marzo 2022 l’avevamo scoperto a mediare, per conto di Leonardo e Fincantieri, su una maxi commessa alla Colombia: due sottomarini, quattro corvette e 24 caccia. L’affare, però, sfuma. «Ho aiutato le imprese di Stato senza prendere un euro» spiega D’Alema. Gratis et amore Dei. O quasi. I due colossi italiani sono clienti di Ernst & Young, che ha assoldato il fu segretario dei Ds per guidare il comitato consultivo. Il contratto non sarebbe stato rinnovato solo per volontà dell’Immacolato, dopo lo scoop de La Verità, onde evitare nuove polemiche. Come quelle che divampano quando si scopre che, in tempi di pandemia, il «leader maximo» s’è prodigato per recuperare 140 ventilatori polmonari dalla Cina: privi del marchio CE, dunque farlocchi. Anche allora specifica di aver solo dato una disinteressata mano. Il solito cuore d’oro. Assicura di aver anticipato i soldi, nientemeno, come presidente onorario di un’associazione benefica. Che ci volete fare? Gli uomini come lui, quelli che hanno fatto grande la sinistra, sono come la benemerita: «Nei secoli fedele».
La vera passione dell’ex premier è però la Cina. È consulente dei think tank organizzati dal governo di Pechino attorno alla «Silk Road Initiative». Tanto da aver creato, nel 2019, la quasi omonima Silk Road Wines srl, per esportare il vino che produce in Umbria sulla «Via della Seta». L’anno scorso la società ha avuto utili per 69 mila euro. Ben avviata anche DL & M advisor, di cui è socio unico e amministratore. Oggetto sociale: consulenza alle aziende. Nata due anni fa, ha chiuso il 2020 con un utile di oltre 200 mila euro. L’anno dopo è quasi il triplo: 582 mila euro. E adesso ritroviamo D’Alema a fianco del Qatar, alla conquista della più strategica raffineria del Paese, da cui viene un quarto della benzina italiana.
«Baffino il qatarino» è abituato a primeggiare. Deve però inchinarsi davanti agli allori del «Matteo d’Arabia». Con tutto il rispetto per D’Alema, Renzi resta inarrivabile. Continua a sfrecciare attraverso quelle «porte girevoli», volteggiando sulle francesine nere, mentre è ancora senatore. Guida un partito, Italia Viva, con pochissimi voti ma sterminate ambizioni. Adesso è il demiurgo del Terzo polo, insieme a Carlo Calenda. Eppure, appena due anni fa, il «Churchill dei Parioli» deflagra: «Ritengo inaccettabile che un senatore della Repubblica, pagato dai cittadini, vada in giro per il mondo a fare il testimonial di regimi autocratici dietro pagamento di lauti compensi». Suggella: «Una cosa semplicemente immorale e pericolosa».
Come spesso accade, s’è ravveduto. Il compare centrista, però, non ha certo cambiato frequentazioni. Continua a far parte del board del Future investment initiative institute, controllato dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita, Paese che Amnesty International definisce «il regno della crudeltà». Lui, coriaceo, ha sempre glissato: «La legge me lo consente». Vero. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei in cui le porte girevoli possono mulinare senza sosta. Così, la legge gli ha permesso anche di sedere nel cda di Delimobil Holding, società di car sharing italo-russa: carica da cui sente l’urgenza di dimettersi solo a causa del conflitto in Ucraina. Le ultime «comunicazione reddituali» al parlamento, riferite al 2020, confermano dunque i robusti introiti delle consulenze: 489 mila euro.
Il meglio, però, deve ancora venire. L’11 dicembre 2021, dopo una segnalazione di «operazione sospetta», l’ex primo ministro dettaglia a Bankitalia un versamento di 1,1 milioni di euro: «Prestazioni fornite in qualità di consulente dell’Arabia Saudita». La metà, 570 mila euro, arriva dalla Royal commission for AlUla, che promuove lo sviluppo turistico nel deserto saudita. Insomma, quest’anno Renzi sembra destinato a stravincere la classifica parlamentare dei leader meglio pagati. Mentre nel 2020, nonostante l’invidiabile reddito, era stato superato dall’attuale segretario del Pd, Enrico Letta: quasi 622 mila euro, senza introiti politici tra l’altro. Dopo l’uscita da Palazzo Chigi a febbraio 2014, proprio per mano di Renzi, anche il probo «Nipotissimo» s’è adoperato con successo.
A maggio 2016 viene nominato nel comitato consultivo di Amundi, la maggiore società di investimenti d’Europa, controllata del gruppo bancario francese Crédit Agricole. A ottobre 2017 entra nella Commissione per la riforma voluta dal presidente transalpino, Emmanuel Macron. A marzo 2019 lo chiamano nel consiglio di sorveglianza di Publicis, colosso pubblicitario francese. Ad agosto 2019 Letta viene nominato vicepresidente per l’Europa occidentale del veicolo di investimento cinese ToJoy. Siede pure nel comitato consultivo Nell’advisory board di Tikehau Capital, fondo francese che gestisce 34 miliardi dollari. Infine, è tra i fondatori della società di mediazione Equanim.
Riassumendo: dopo il suo arrivederci al Parlamento, il futuro segretario del Pd ha collezionato 5 consulenze solo in Francia, dove aveva anche la cattedra a Sciences Po, università delle élite parigine. Agli incarichi transalpini va aggiunta la nomina nel cda di Abertis, multinazionale spagnola delle autostrade. E l’omonimo ruolo nel consiglio d’amministrazione della holding britannica Liberty Zeta Ltd. Nonché l’incarico, ancora di consulente, per Spencer Stuart, società statunitense di cacciatori di teste. In totale, 8 poltronissime. Da cui s’è dimesso dopo essere stato richiamato in Italia, a marzo 2021, per guidare il Pd. E adesso, dimissionario, molti si chiedono: tornerà a far fortuna Oltralpe?
Il suo maestro, Romano Prodi, già leader dell’Ulivo, uscito da Palazzo Chigi ha puntato invece dritto sulla Cina. Ma anche, come rivela nel 2013 Spiegel International, sul Kazakistan, dove sarebbe stato membro dell’International Advisory Board, già presieduto da Nursultan Nazarbayev, ex dittatore del Paese asiatico. «Collaborazioni con istituzioni non pienamente democratiche» le definisce il non certo virgineo Renzi, che un anno fa arriva a chiedere il «confronto etico» con gli illustri e attigui predecessori. Poco da fare, comunque. La porta girevole tenta tutti. Ma nessuno riesce a guadagnare l’entrata come ex diessini, margheritini e piddini. Sono gli alterni epigoni dei Quattro moschettieri della sinistra italiana: D’Alema, Renzi, Letta e Prodi. Molti di loro si sono almeno riciclati, grazie ai trascorsi politici, al servizio di aziende e colossi statali. Come Marco Minniti, già parlamentare, plurisottosegretario e ministro dell’Interno. Cambio sincronico il suo. L’11 marzo 2021 si dimette da Montecitorio, causa incompatibilità con il nuovo ruolo: la presidenza della fondazione Med-Or, creata da Leonardo. E chi meglio dell’ex Lothar dalemiano, che al Viminale s’è adoperato con le tribù libiche per frenare i flussi migratori?
Anche a guidare la gemella Fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine è arrivato uno storico fedelissimo di «Baffino»: Luciano Violante, già capo dei deputati diessini e vicepresidente della Camera. Un altro ex dalemiano, Claudio De Vincenti, s’è riciclato laddove aveva esercitato. Da sottosegretario alla presidenza del consiglio si prodigò per l’acquisto del famigerato Air Force Renzi. Rimane al comando nel settore: presidente degli Aeroporti di Roma, società dei Benetton che gestisce Fiumicino e Ciampino. Stesso percorso di Pier Carlo Padoan: ministro dell’Economia per oltre quattro anni, da Renzi a Gentiloni, diventato presidente della banca Unicredit. Mentre la turbolettiana Alessia Mosca, ex parlamentare del Pd, a luglio 2021 entra nel cda di Crédit Agricole.
Più articolata la progressione del prodiano Sandro Gozi, già sottosegretario agli Affari europei. A giugno 2018 riceve una consulenza da 120 mila euro dalla Banca centrale di San Marino. Diventa quindi collaboratore del premier francese, Édouard Philippe. Poi lavora per il governo maltese. Infine entra nel Parlamento europeo tra le file macroniane. Ora, commenta sdegnato il Qatargate: «Il danno di credibilità nei confronti del Parlamento Ue è gravissimo».
