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Russia, privilegi da oligarchi anche in guerra

Russia, privilegi da oligarchi anche in guerra

Nonostante il conflitto in Ucraina, è cambiato poco per gli uomini più ricchi della Russia, con immensi interessi economici favoriti dalla prossimità a Vladimir Putin. La maggior parte di loro non può spostarsi in residenze estere, a causa delle sanzioni al Paese. In compenso, a Mosca gli affari procedono. L’importante è – il caso Navalny insegna – non contestare le strategie dello zar.


«Putin» e «oligarchi» sono parole che si continuano a trovare accoppiate, non solo sui media internazionali ma anche su quelli russi. Un’associazione però fuorviante in alcuni versi, desueta per altri. Fuorviante perché, in fin dei conti, tra i 500 più ricchi del mondo ci sono solo 23 russi e desueta perché il capitalismo sulla riva della Moscova vive soprattutto di investimenti statali come già ai tempi non solo del comunismo ma anche degli zar. A maggior ragione dopo due anni di guerra in Ucraina. Oggi in Russia i grandi imprenditori privati hanno un peso relativo e se in Occidente si può dire che spesso sia il mondo degli affari a dettare l’agenda politica, sotto le mura del Cremlino succede il contrario. O quasi.

Ciò è emerso plasticamente proprio con il conflitto ucraino. Se si scorre la lista dei russi più ricchi compilati ogni anno da Forbes Russia, balza subito all’occhio come gran parte dei tycoon si siano allineati alle posizioni di Vladimir Putin sull’«inevitabilità del conflitto». Tra questi naturalmente i fedelissimi da sempre del presidente, come Vladimir Potanin, 23,7 miliardi di dollari di patrimonio e re della metallurgia russa, oppure come Leonid Michel’son che ha dichiarato nel 2023 una ricchezza di 21,6 miliardi di dollari, magnate del settore del gas. Roman Abramovich, l’oligarca più noto in Italia per essere stato presidente della squadra londinese del Chelsea, ma anche businessmen meno noti (ma più ricchi) come Andrej Melnichenko, hanno assunto dopo il 24 febbraio posizioni più defilate. Quest’ultimo, che con la sua holding familiare è oggi l’uomo più ricco delle Federazione con 25,2 miliardi di dollari di patrimonio e con un impero che va dalla produzione di fertilizzanti fino al settore minerario, si è tenuto lontano dalle polemiche quanto più possibile.

«Essendo io» ha dichiarato di recente «russo di nazionalità, bielorusso di nascita e ucraino di sangue, provo grande dolore e confusione quando vedo popoli fratelli combattere e morire». In questo approccio gioca in Russia come già negli Stati Uniti l’adagio patriottico My country, right or wrong, il mio Paese che abbia ragione o torto, ma anche la scarsa internazionalizzazione dei grandi gruppi privati russi. Non è un caso che non solo le capitalizzazioni delle loro imprese non hanno conosciuto flessioni negli ultimi due anni, ma all’ombra delle commesse statali sono persino aumentate. Da Severstal (siderurgia) a Lukoil (petrolio), da Novatek (gas) a Nornickel (metallurgia) non c’è grande gruppo che non abbia ricevuto dal 24 febbraio in poi ordinativi dal governo più o meno legati allo sforzo bellico. Lo scorso anno è stato un anno d’oro per queste imprese: Vagit Alekperov, fondatore di Lukoil, ha aumentato il proprio patrimonio di 9,29 miliardi di dollari, mentre a Leonid Michel’son, capo di Novatek è andata solo leggermente peggio, +2,83 miliardi. Anche se nella foto del gruppo dei super ricchi, spicca ormai anche la figura di Pavel Durov, il 39enne sanpietroburghese con un’infanzia passata a Torino, numero uno di VKontakte (il Facebook russo) ma soprattutto di Telegram, il social orientato all’informazione senza censure. In tempo di guerre e di feroci polemiche politiche è diventato il terzo russo più ricco malgrado tutti i suoi eroi di «libertarian» da Steve Jobs a Che Guevara, non coincidano con il pantheon ultranazionalista del Cremlino.

Pochissimi, invece, gli imprenditori che hanno espresso dubbi e perplessità mentre gli aperti oppositori sono state autentiche mosche bianche. Tra questi Oleg Tinkov (dichiarato il 16 febbraio scorso «agente straniero») e già titolare della Tinkoff Bank, che dopo aver denunciato l’aggressione all’Ucraina ha svenduto i suoi pacchetti azionari in patria e si è rifugiato a vivere nella sua villa a Forte dei Marmi. Le sanzioni contro i super-ricchi non pesano tanto dal punto di vista delle potenzialità degli investimenti e dei profitti quanto da quello del lifestyle. «Nati in epoca sovietica» racconta a Panorama un broker della City di Mosca in cambio dell’anonimato, «gli oligarchi russi sono cresciuti con il gusto per le vacanze a Montecarlo o a Taormina, per gli abiti cuciti nei migliori atelier di Parigi e con i figli educati a Oxford o a Harvard. Sono “fastidi” difficili da metabolizzare o a cui abituarsi». Insomma, la Mosca «che conta» che ha sempre amato restare rintanata alla Rublyovka, il prestigioso quartiere residenziale protetto da vigilantes di polizie private, continua a concedersi in pubblico per un aperitivo al bar in cima al Four Seasons e brinda ai rinnovati profitti. Ma, diciamocelo, ha una gran nostalgia per le serate a Cannes.

Emblematico, in questo senso, il caso di Melnichenko con la moglie Alexandra, ex modella serba che ha anche il passaporto croato. Lui, non potendo più viaggiare in Occidente ha donato i suoi asset alla consorte ma senza riuscire a evitare il congelamento dei beni e il sequestro del fantasmagorico yacht da 45 milioni di dollari. Lei, non più di un mese fa si è consolata acquistando un grande appartamento al 110 di Central Park South a New York, che lui forse non potrà mai apprezzare. «Molti uomini d’affari si sono convinti che la Seconda guerra fredda con i Paesi della Nato proseguirà a lungo e che soffiare sul collo dello zar perché arretri non serva» continua la nostra fonte moscovita. E aggiunge, con perfetta ironia russa: «Il presidente è convinto che tempi della politica e della storia non vadano sempre a braccetto con i desiderata della vita privata».

Chi non ha problemi di sanzioni – e non è l’unico tra gli oligarchi russi anche se è quello più in vista – è Vladimir Lisin che si trova al terzo posto nella classifica dei Paperoni russi. Signore della metallurgia russa, Lisin non è stato messo all’indice in Unione Europea grazie ai suoi business in Belgio (ma è presente anche in Italia con una fabbrica a Verona) e da anni preferisce vivere non a Mosca ma nella sua tenuta di Aberuchill Castle in Scozia. Si tratta di uno dei businessmen che comunque ha mantenuto più autonomia di giudizio: quando Putin decise di far pagare in rubli agli europei il suo gas, sostenne immediatamente che a lungo andare lo schema non avrebbe funzionato. Se si vuole trovare un messaggio politico trasversale nella tragica fine di Alexej Navalny in carcere, in fondo è questo: l’indipendenza e spirito critico saranno sempre meno tollerati al Cremlino. Tuttavia gli oligarchi in senso proprio controllano solo una parte (minoritaria) del capitalismo russo che si è trasformato nell’era Putin sempre di più in un capitalismo di Stato. Secondo il Servizio federale antimonopolio di Mosca, nel 1998 la quota delle imprese di Stato che rappresentava il 25 per cento del totale oggi supera il 70.

«La creazione di campioni nazionali nell’energia e in altri settori, implica una maggiore concentrazione di beni economici nelle mani dello Stato, ha ridotto l’efficienza e non ha scalfito la corruzione» afferma Elena Gevorkya, economista moscovita ma di origine armena. Da questo punto di vista abbiamo assistito soprattutto negli ultimi dieci anni a una sorta di «ritorno al futuro», alla costruzione di un’Unione Sovietica 2.0 in cui la nomenklatura e i «direttori rossi» sono tornati agli antichi fasti. Di fatto, coloro che si trovano nelle posizioni chiave delle imprese statali hanno un ruolo nell’economia e nella politica russa più importante degli oligarchi. Prima di tutti Igor Sechin, dal 2012 a capo di Rosneft (colosso dell’energia da 68 miliardi di dollari di capitalizzazione) e leader della corrente del Cremlino dei siloviki (i «duri») che hanno sempre pensato come inevitabile lo scontro con l’Occidente. Stranamente, suo figlio Ivan, 35 anni, anch’egli in posizione rilevantissima nella mappa del potere, è morto all’improvviso per «un coagulo di sangue»: è la stessa causa di decesso comunicata per Navalny. Ancora: va ricordato Alexej Miller, numero uno dell’altra grande industria energetico-mineraria Gazprom, e amico di Putin fin dai tempi di Leningrado. Sono loro a costituire il «cerchio magico» con cui lo zar si consulta ogni volta che deve prendere decisioni strategiche, ancor prima che con il ministro degli esteri Sergej Lavrov e quello della Difesa, Sergej Shojgu. E la complicità in questi casi conta ancora più dell’amicizia. n © riproduzione riservata

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