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Quei nuovi «oligarchi» della politica Usa

Quei nuovi «oligarchi» della politica Usa

Elon Musk, come il meno noto (ma molto influente) Peter Thiel, sono prototipi di miliardari che vogliono pesare nel potere degli Stati Uniti. L’Europa ha le sue preferenze.


Anche l’America si ritrova suo malgrado a fare i conti con gli oligarchi, e il suo successo nelle vicende globali e soprattutto nel confronto con Cina e Russia dipenderà anche dall’abilità delle istituzioni americane nel gestire il rapporto con questi personaggi, tanto ricchi quanto influenti. E, di quando in quando, toccherà anche metterne in riga qualcuno.

Tutto ciò può suonare singolare, visto che il concetto stesso di «oligarca» – con le ruvidezze che vi si accompagnano – viene associato più facilmente al mondo del capitalismo autoritario (Russia, Cina) anziché al capitalismo democratico. Eppure anche negli Usa, nel Paese cioè dei robber barons e delle grandi dinastie industriali che manovrano anche leve politiche dello Stato, il tema è tornato di attualità. Al momento, è dato distinguere due diversi modelli di relazioni. Quello del creso che prova a elevarsi al di sopra e al di là della politica, e quello di chi prova a far pesare la sua influenza «da dentro». Il primo modello è quello di Elon Musk, il secondo di Peter Thiel. Né l’uno né l’altro sono nati negli Usa e i loro riferimenti culturali sono solo in parte nello Stato federale, ma entrambi hanno acquisito o sviluppato business che sono, a tutti gli effetti, cruciali infrastutture pubbliche. Sistemi di pagamento (PayPal), satelliti (SpaceX), mobilità elettrica (Tesla), piattaforme social (Twitter): l’elenco è lungo, e rende spesso difficile cogliere i confini tra potere pubblico e privato.

Sul versante della politica estera, è soprattutto il sudafricano Elon Musk a tenere banco. Miliardario (patrimonio: oltre 220 miliardi di dollari) e suggestivo esempio di «salamandra» imprenditoriale, ama come pochi altri danzare tra le fiamme. Le truppe ucraine dipendono dai suoi satelliti per le operazioni sul campo contro gli invasori russi, ma per un attimo il neo-proprietario di Twitter è sembrato addirittura sul punto di «staccare la spina», sollecitando il Pentagono ad accollarsi i costi del servizio. Quanto all’acquisizione del social media, vissuta con fastidio dal mondo liberal e accolta con festa dal trumpiano che sogna un gran rientro, sarà presto messa alla prova della geopolitica. Come potrà Musk garantire la libertà incondizionata di parola su Twitter se la Cina, dove il tycoon produce e vende grossi quantitativi di Tesla, pretende un occhio di riguardo verso il proprio regime? A pochi, poi, è sfuggita la maxi-inchiesta penale del Department of Justice americano su una sfilza di incidenti in cui si sospetta che abbia fatto cilecca il software di guida automatica delle Tesla. A tenere una metaforica pistola puntata contro Musk, insomma, sono in tanti.

Sul versante della politica interna, pur disponendo di risorse ben più limitate di Musk (patrimonio: circa 5 miliardi di dollari), è il Deutschamerikaner – americano di origine tedesca – Peter Thiel a meritare attenzione. Questi, che da bambino trascorse una parte della sua infanzia in Africa al seguito del padre ingegnere minerario, ha fatto fortuna come venture capitalist in California e poi come cofondatore di PayPal (arrivata al successo dopo la fusione con la società X.com proprio di Elon Musk). Della California, tuttavia, non ha affatto assecondato la vena liberal, ed è invece considerato un nume tutelare dei repubblicani Usa. Ovviamente Thiel non è né il primo né l’ultimo miliardario a sostenere questo partito. A differenza di tanti altri, tuttavia, non ne vuol sapere di sottoscrivere cambiali in bianco, ma vuole scegliere a uno a uno i candidati da sostenere. Quelli della «scuderia» Thiel, Blake Masters in Arizona e James David Vance in Ohio, sono oggi facilmente riconoscibili. Masters era un manager di punta del fondo personale del magnate, Thiel Capital, mentre Vance lavorava in Mithril Capital, uno dei fondi di venture capital che fa sempre capo al miliardario.

Tutto ciò è valso a Thiel l’accusa di coltivare una visione padronale della politica, oltre a pesanti sospetti di prossimità con Donald Trump. In realtà il miliardario va d’accordo con l’ex presidente e i suoi, ma mantiene un’identità distinta e coltiva politici di riferimento propri. Inoltre le sue posizioni sulla Cina e sulla Russia sono più drastiche di quelle – ambigue – di Musk, e Thiel è guardato con interesse anche dall’establishment europeo. Quando guida la geopolitica, quindi, non tutti i paperoni sono uguali. n

L’autore, Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar

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