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Viruscrazia, come il mondo sta affrontando la pandemia

  • Sud America: Dai proclami del brasiliano Jair Bolsonaro al collasso sanitario ecuadoregno, la parte meridionale del continente sta fronteggiando il coronavirus in ordine sparso.
  • Medio Oriente: i regimi si rafforzano e stringono le maglie della censura. E viene sospeso il pellegrinaggio alla Mecca.
  • Russia: Vladimir Putin prima ha cercato di ridimensionare l’allarme, ma ora che a Mosca scoppiano i contagi, ammette le criticità.

Viruscrazia, come il mondo sta affrontando la pandemia
Una sostenitrice di Jair Bolsonaro a Brasilia il 19 aprile 2020. (Joedson Alves EPA/Ansa)
Una sostenitrice di Jair Bolsonaro a Brasilia il 19 aprile 2020. (Joedson Alves EPA/Ansa)


«La Cina ha vinto la Terza guerra mondiale senza sparare nemmeno un colpo di fucile». Mancava solo il chavista Evo Morales, l’ex presidente della Bolivia dall’Argentina, dove si è rifugiato da latitante (è accusato di narcoterrorismo), a sentenziare sul coronavirus. Una piaga che per l’America latina – continente dove i sistemi sanitari sono ovunque precari – rischia di trasformarsi in incubo. Certo, al momento in questa parte di mondo che va dal Rio Bravo alla Patagonia, non siamo di fronte al disastro europeo, dove i morti accertati sono oltre 100.000. Alla metà di aprile, il Paese col maggior numero di decessi è il Brasile (oltre 2.000), seguito da Ecuador e Messico ma, a detta di tutti gli specialisti, il numero delle vittime è destinato a crescere, anche se non come nella Vecchia Europa. Tra le ipotesi della minore letalità, dicono alcuni studi scientifici, c’è una ragione climatica: il virus si indebolirebbe oltre i 27 gradi di temperatura.

Con 55.000 letti di terapia intensiva – 11 volte più dell’Italia, ma anche con una popolazione di circa 150 milioni di abitanti – il Brasile è senz’altro la più attrezzata di tutte le nazioni sudamericane per affrontare l’emergenza Covid-19. Qui, nonostante le discutibili esternazioni del presidente Jair Bolsonaro («se fossi infettato dal coronavirus non dovrei preoccuparmi, col mio fisico da ex atleta sarebbe poco più di un raffreddore, una piccola influenza» ha affermato), il ministro della Sanità verde-oro, Henrique Mandetta, è un luminare della medicina affiancato da un’ottima équipe di esperti in epidemie. Oltre ad avere potenziato i posti di terapia intensiva, Mandetta ha triplicato la produzione di mascherine, respiratori, camici chirurgici e guanti. Una produzione nazionale mai come oggi strategica. Inoltre, essendo il Brasile una federazione di Stati e avendo il Parlamento votato subito la «calamità da Covid-19», è stato abolito il tetto di spesa.

Ciò ha immediatamente consentito di fornire liquidità alla popolazione. Dopo avere rimandato le scadenze fiscali a fine giugno, è già stata versata sui conti correnti di 54 milioni di brasiliani la prima rata di aiuti di emergenza di 600 reais, circa 120 euro, che in Brasile aiutano a vivere. Il secondo pagamento arriverà a fine aprile e l’ultima rata sarà pagata entro il 29 maggio, per un totale di 1.800 reais, quasi 400 euro. Chi riceve già il sussidio «Borsa famiglia», 47 milioni di persone, si vedrà inoltre accreditare gli stessi importi, mentre ai 30 milioni di brasiliani ancora senza conto corrente il trasferimento sarà fatto allo sportello in banca.

A San Paolo, con Rio la città più colpita dal coronavirus, è stata imposta a marzo dal governatore João Doria la quarantena prorogabile sino a fine emergenza che, si prevede, durerà ancora mesi. Sono state chiuse tutte le attività che «non forniscono servizi o prodotti essenziali». Molti stadi di calcio sono stati trasformati in ospedali da campo a tempo record, con accesso separato dei malati di Covid-19 in crisi respiratoria.

Agli anziani che devono vaccinarsi contro l’influenza, inoltre (in America latina si sta entrando nella stagione invernale) a San Paolo si dà appuntamento via WhatsApp e l’iniezione è fatta all’aperto col «drive-through», ovvero senza che le persone scendano dalla propria auto. Obiettivo ovunque è garantire il distanziamento, che il ministero della Sanità brasiliano ha fissato in 2,5 metri.

Nella favela di Paraisopolis, sempre a San Paolo, i capi comunità hanno organizzato loro stessi il servizio di medici e ambulanze. Come durante le Olimpiadi e i Mondiali, i narcos che controllano le favelas di Rio de Janeiro si sono accordati con il potere politico: sono loro a imporre il coprifuoco nelle baraccopoli e a vietare gli assembramenti per il tradizionale ballo funky. Per le protezioni individuali si sono attivate le sarte delle scuole di samba che, invece dei costumi, producono a ritmo continuo mascherine in tessuto lavabili. Nello Stato di San Paolo – 40 milioni di persone su un territorio quasi il doppio dell’Italia – l’isolamento è rafforzato dal governatore João Doria. Dopo avere siglato un accordo con le principali aziende di telefonia, fa monitorare gli spostamenti di chi deve stare a casa perché positivo. «Chi sgarra, rischia la galera» è il suo motto.

Differente – e assai più grave – la situazione in Ecuador. Nella città portuale di Guayaquil già a fine marzo i morti causati dall’epidemia non riuscivano neanche ad arrivare in obitorio, lasciati per giorni nelle case e persino in strada. Le pompe funebri sono al collasso e la popolazione è arrivata a cremare le salme per strada, in cassonetti di legno trasformati in pire funerarie. Un orrore che accade in una metropoli da 2,3 milioni di abitanti, dove molti poveri però vivono in case di bambù. Il motivo è semplice e lo spiega a Panorama il presidente della Federazione delle organizzazioni sociali dedicata ai servizi funebri: «La situazione è fuori controllo, non ci sono fosse per le sepolture, né bare. E la cosa peggiora per chi non ha soldi, visto che una cremazione costa 1.500 dollari».

In Nicaragua, invece, il dittatore sandinista Daniel Ortega ha risolto il problema negando per decreto la realtà del coronavirus: ufficialmente, alla metà di aprile, risulta un unico morto (solo la Corea del Nord fa meglio, non avendo registrato decessi). Come? Semplice, tutti i morti per Covid-19, moltissimi in realtà, sono stati registrati come vittime di polmonite, aumentati di oltre il 1.000 per cento rispetto al 2019 nello stesso periodo. Una strategia criminale imitata dal Venezuela del dittatore Nicolás Maduro che, inoltre, impedisce a chi non possiede il «carnet della patria» (ovvero il bancomat che garantisce a chi vota il regime un po’ di cibo), di uscire per fare la spesa.

Cuba è un caso a parte perché, se da un lato il governo ha subito informato correttamente la popolazione, infischiandosene della confusione creata dall’Oms e spiegando a tutti come farsi in casa una mascherina lavabile, dall’altro è stata costretto dall’emergenza a esportare medici anche in Italia perché il crollo del turismo ha messo la dittatura con le spalle al muro dal punto di vista economico. Non un’azione umanitaria, come plaudito da molti politici italiani (ultima, il sindaco di Torino, Chiara Appendino dei Cinque stelle) ma dietro compenso; che, per la cronaca, finisce quasi tutto – l’85% – sui conti correnti del regime.

Drammatica anche la situazione in Messico, dove il presidente populista di sinistra Andrés Manuel López Obrador (per tutti AMLO) sino a pochi giorni fa stringeva le mani a tutti, compresa alla madre del boss della droga Chapo Guzmán, e invitava ad abbracci collettivi. Di tutti i Paesi latinoamericani, infine, l’unico ad avere deciso per la chiusura totale con multe all’italiana è l’Argentina kirchnerista di Alberto Fernández. L’aver adottato per tempo questa modalità fa sì che i morti ufficiali, a metà aprile, siano poco più di un centinaio. A Buenos Aires il vero problema è il default finanziario, di fatto già una realtà sul piano interno, non ancora su quello internazionale. Sarà questo che impedirà alle autorità di proseguire a lungo il lockdown, per non ritrovarsi persone che muoiono di fame invece che di coronavirus.

Viruscrazia: i regimi del Medio Oriente sfruttano il contagio

Viruscrazia, come il mondo sta affrontando la pandemia
Sanificazione nelle strade di Teheran il 25 marzo 2020 (Fatemeh Bahrami/Anadolu Agency via Getty Images).

A luglio non si vedranno i consueti milioni di fedeli girare estatici attorno alla Kaaba, l’iconico e misterioso cubo coperto da tessuto nero, il luogo più sacro per l’Islam dentro la Sacra Moschea della Mecca. L’Arabia Saudita si prepara per la prima volta nella storia a sospendere il pellegrinaggio dell’hajj, il «quinto pilastro» dell’Islam. Il timore di un’esplosione dei contagi è troppo forte, due milioni e mezzo di musulmani da tutto il mondo affollano Mecca e Medina in quell’occasione, e la distanza fra le persone è di pochi centimetri. Il Medio Oriente si prepara tuttavia ad altri cambiamenti, meno simbolici ma dall’impatto sociale più profondo. I regimi autoritari si rafforzano e stringono le maglie della censura e dei controlli, le popolazioni sono costretti a comportamenti mai adottati prima. E si afferma una «viruscrazia» .

Per l’Arabia Saudita l’effetto di Covid-19 è quello di un colpo alle riforme liberali del principe ereditario Mohammed bin Salman. I contagi nel regno sono circa 5.000, i morti quasi un centinaio. Riad e le altre città hanno un aspetto desolato per il coprifuoco, sono chiusi cinema e teatri appena riaperti dopo decenni, centri commerciali, ristoranti.

Oltre alla sospensione del grande e piccolo pellegrinaggio, l’umra, il mondo musulmano vivrà da recluso il ramadan, che inizia il 23 aprile. Il primo ad annunciare misure è stato l’Egitto. Non ci sarà l’iftar, il tradizionale pasto serale, se non al chiuso delle case. I musulmani di solito rompono il digiuno al tramonto e insieme alle famiglie, vanno alla moschea per pregare e trascorrono il tempo con i parenti, mangiando e festeggiando. I ristoranti ogni sera sono affollati con tavoli di 20 o 30 persone. Un rischio fatale in tempi di Covid-19.

Anche in Iran questo periodo di celebrazioni sarà blindato. Lo ha fatto capire la guida suprema Ali Khamenei in un discorso tv: «Invece che con raduni di massa, ne coglieremo il senso nella nostra solitudine a casa». Se l’Iran, con i numeri ufficiali che contano più di 70.000 contagiati e oltre 4.000 morti, è fra i Paesi più colpiti, il Medio Oriente ha finora scampato lo tsunami che ha investito Cina, Europa e Stati Uniti.

I regimi tuttavia hanno avuto una reazione fulminea, sfruttando l’eccezionalità dell’evento. Hanno imposto il coprifuoco, chiuso uffici e aziende, messo in quarantena le città. «Il coronavirus è un’ottima arma per la repressione, con la scusa della salute pubblica» riflette Karim Mezran, analista dell’Atlantic Council di Washington. «Il popolo, dalle classi più ricche al proletariato, potrebbe però rivoltarsi in un secondo tempo contro i governi per incapacità nella gestione della crisi. Già in Libia 47 comuni della Tripolitania si sono ribellati al premier Fayez al-Sarraj, che non ha dato risposte appropriate».

Molti governi hanno dichiarato lo stato di emergenza, i leader governano per decreto e sono state schierate le forze armate per le strade. In Egitto, più di 2.000 casi e 164 morti ufficiali, l’esercito ha sanificato le città e bandito la corrispondente del quotidiano inglese The Guardian, Ruth Michaelson, colpevole di aver sostenuto che l’epidemia stia avendo effetti peggiori di quanto dice il regime. «In Egitto si nascondono i dati reali» conferma Mezran. «È filtrata dalla rete della censura la notizia di due generali morti, e si è capito che il ferreo controllo del presidente Abdel Fattah al-Sisi tace molte cose. Ora c’è la repressione, ci vorrà del tempo, ma il Paese potrebbe riesplodere».

Nella Giordania di re Abd Allah II l’esercito vigila che il coprifuoco sia rispettato e i militari portano il cibo nelle case. C’è la volontà di usare droni e telecamere di sorveglianza per monitorare il coprifuoco. Amman ha già arrestato almeno 1.600 persone per averlo violato, e ha limitato il numero di giornalisti autorizzati a informare all’esterno del Paese.
Questa prontezza dei regimi arabi, specialmente i più autoritari, stride con la sottovalutazione iniziale della Repubblica islamica dell’Iran, dove la difesa dall’epidemia è stata depotenziata dai religiosi. Folle inferocite si sono precipitate nei cortili dei santuari Imam Reza di Mashhad e Fatima Masumeh di Qom quando il governo ha deciso di chiuderli, perché focolai di contagi. I credenti pregano lì 24 ore al giorno, toccando e baciando mura e pavimenti degli edifici.

Oltretutto questi luoghi attirano sciiti da tutto il Medio Oriente, contribuendo alla diffusione del virus nella regione. «L’Iran ha numeri ben peggiori» rincara Eli Karmon, studioso israeliano del Centro interdisciplinare ad Herzliya «e questo perché là arrivano pellegrini dal Kuwait e dal Bahrein. Poi Teheran ha continuato le sue attività in Siria e in Iraq, e ha chiuso in ritardo i luoghi santi tra cui Qom».

Nel vicino Iraq sono state prese misure apertamente liberticide. Il governo ha vietato all’agenzia Reuters di operare nel Paese per tre mesi, dopo la pubblicazione di un rapporto che contraddice il numero di casi ufficiali. Anche il più tollerante Libano sembra essersi adeguato a questa stretta. Un video mostra un gruppo di giovani fuori dalla Al-Mawarid Bank in Hamra Street, il quartiere «culturale» di Beirut, con librerie, caffè e ristoranti; alcuni indossano mascherine e altri cantano «Abbasso il dominio delle banche». Il risultato? Sei attivisti arrestati, insieme al giornalista Mohammad Nazzal. A Place des Martyrs, centro delle manifestazioni, ora rimane solo il pugno di carta alto 10 metri che porta la scritta Thawra, «rivoluzione».

Negli ultimi giorni, oltre 4.300 persone sono state arrestate in Marocco per violazione delle norme anti-coronavirus, che porta il numero delle carcerazioni a 28.701 da metà marzo. Mentre il nuovo presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha promesso punizioni per «coloro che diffondono notizie false», cioè sgradite al sistema. Si sono moltiplicati gli arresti di attivisti e reporter. L’ultimo è il corrispondente della tivù libanese Al-Mayadin, Sofiane Merakchi, condannato a otto mesi di carcere.

Persino nell’unica democrazia dell’area, Israele, con 12.000 casi e 116 morti, l’epidemia pone sfide inedite. Il premier Benjamin Netanyahu ha ordinato di utilizzare applicazioni sui cellulari per controllare i cittadini israeliani. Alcuni temono che in futuro si potrà abusare di questi mezzi. «È un periodo critico per il Paese» commenta Karmon. «C’è una crisi politica in corso, l’opposizione è divisa, sono stati fatti errori politici. E anche se Israele ha avanzate capacità tecnologiche, non c’è sufficiente trasparenza».

Il governo di Tel Aviv ha varato misure speciali nei confronti delle comunità ultraortodosse. Nelle città e nei quartieri haredi il tasso di crescita del Covid-19 è triplo rispetto al resto del Paese. Bnei Brak, centro di 200.000 abitanti, è stato sigillato. Lo stesso ministro della Salute Yaakov Litzman ha contratto il virus. Nelle scorse settimane, i membri della setta Peleg Yerushalmi hanno celebrato delle nozze in cui dozzine di invitati hanno danzato mano nella mano.

Apparentemente, l’epidemia sembra meno virulenta in Paesi in guerra come la Libia e la Siria sia perché isolati dal resto del mondo sia perché mancano soprattutto i test per accertare i contagi. In Yemen – che finora ha solo un caso – se il coronavirus si diffondesse sarebbe devastante. Il Paese in guerra da cinque anni è praticamente senza ospedali e ha una popolazione minata da malnutrizione e malattie. Perciò la coalizione a guida saudita ha dichiarato un cessate-il-fuoco di due settimane. I ribelli Houthi alleati dell’Iran non hanno però accettato.

A dimostrazione che il Covid-19 ribalta ogni schema, ci sono anche segnali di cooperazione tra Paesi finora avversari. Succede per esempio tra Israele e palestinesi. Lo Stato ebraico ha inviato 120 milioni di shekel (30 milioni di euro) di aiuti per l’emergenza sanitaria all’Autorità palestinese. E il vice inviato speciale per il Medio Oriente dell’Onu, Jamie McGoldrick, si è accordato con il governo di Tel Aviv per progetti quali la fornitura di protezioni ai medici di Gaza, nonché di kit per i test. Emirati e Kuwait, intanto, hanno offerto aiuti all’Iran.

Le proteste antigovernative in Paesi come Algeria, Libano e Iraq si sono placate. Viruscrazia o meno, però, la calma potrebbe essere effimera. E Place des Martyrs a Beirut, piazza Tahrir a Baghdad, il centro di Teheran e di Algeri potrebbero tornare a riempirsi contro la corruzione dei rispettivi regimi.

Chiara Clausi

Lo zar fa i conti con il nuovo nemico

Viruscrazia, come il mondo sta affrontando la pandemia
Un poliziotto sulla piazza Rossa il 20 aprile 2020 (Yuri Kochetkov/ Epa/Ansa)

La solenne severità dell’ulitsa Tverskaya, una delle principali arterie moscovite, e la grandiosità della Piazza Rossa, vuote, senza anima viva, sembrano impotenti nella loro imponenza. Avranno lo stesso aspetto anche il prossimo 9 maggio, quando, abitualmente, questa parte della città si veste a festa per celebrare il Den’ Pobedy, il giorno della Vittoria della Seconda guerra mondiale. Migliaia di persone si assiepano lungo le transenne per assistere alla parata militare, fin dalle prime luci dell’alba. Uno spettacolo dove va in scena l’orgoglio di una nazione, celebrato da una marcia di veterani che sfilano con le giacche piene di decorazioni e, alla fine, si recano verso la piazza della Lubyanka, dove li attendono bambini con mazzi di fiori, in una ideale continuità fra passato e futuro della Russia.

Quest’anno, i russi la parata non la vedranno neanche in televisione. Niente bandiere, niente festa, niente veterani. Per la prima volta nella storia del Paese la Parata della vittoria sarà probabilmente rinviata a data da destinarsi. Una decisione resa necessaria per l’aumento della diffusione del Covid-19 che, dopo un avvio in sordina, sta crescendo in modo preoccupante. I contagiati ufficiali attualmente sono circa 25.000, le vittime 200.

Numeri ancora contenuti rispetto a quelli di molti Paesi, ma la situazione si aggrava e ad ammetterlo è stato proprio il presidente russo, Vladimir Putin, in una video conferenza con il team di medici che sta affrontando l’emergenza. «Abbiamo visto che la situazione sta cambiando su base quotidiana e purtroppo non in meglio» ha spiegato il numero uno del Cremlino. «Il numero delle persone che si sta ammalando è in aumento, così come i casi più gravi. Le prossime settimane saranno decisive. Tutte le nostre azioni e le misure preventive dovranno essere organizzate e applicate tenendo conto di tutti gli aspetti».

Un atteggiamento ben diverso rispetto a quello del mese scorso, quando il presidente aveva detto che la situazione in Russia era «sotto controllo» e che lui avrebbe continuato ad andare in ufficio tutti i giorni. Quella che doveva essere una semplice sospensione delle attività non essenziali per una settimana è già stata prolungata al 30 aprile e, con i dati degli ultimi giorni con ogni probabilità, finirà per includere almeno parte di maggio.

A preoccupare c’è la capitale, Mosca, che con i suoi 12 milioni di abitanti censiti e almeno 11.000 contagiati ufficiali, che rischia di trasformarsi in bomba epidemiologica. Il sindaco, Sergej Sobjanin, che in questa emergenza ha assunto un ruolo di primo piano, almeno fino alla prima apparizione televisiva di Putin, aveva messo in guardia da tempo il Cremlino sulla pericolosità della situazione. I provvedimenti, per quanto rigorosi, potrebbero essere stati presi troppo in ritardo.

Ma, oltre a Mosca, ci sono altre località che preoccupano le autorità, una in particolare, che alcuni hanno già definito la «Bergamo russa». Si tratta di Ulyanovsk, a circa 850 chilometri dalla capitale, fino a ieri nota solo per la sua scenografica posizione sul Volga e le rivolte dei cosacchi contro gli zar nel XVIII secolo. Un domani potrebbe essere ricordata come il primo luogo dove Covid-19 si è propagato in Russia. Il «paziente zero» sarebbe il figlio di un amministratore locale, tornato dalla Gran Bretagna con i sintomi di una strana influenza.

La diagnosi è stata rallentata dalla difficoltà nel reperire i kit per accertare la presenza del virus. Nel frattempo, il giovane non ha rispettato pienamente l’autoisolamento. E, nonostante il bilancio ufficiale continui a essere uno, le persone che si presentano tutti i giorni negli ospedali per richiedere assistenza medica sono a decine, ma le strutture non sono pronte per fronteggiarla. La situazione è seria anche perché molti media, inclusi i più filogovernativi, hanno evidenziato che non sempre i medici possono operare con tutte le protezioni del caso.

Per questo motivo, Putin intende coinvolgere nella gestione dell’emergenza i medici militari, con il ministero della Difesa già impegnato nella costruzione di ospedali destinati a ospitare solo pazienti affetti da Covid-19. Una beffa del destino, se si pensa che questo, per il presidente russo, avrebbe dovuto essere il periodo più trionfale della sua carriera politica.

Alla parata del 9 maggio, per i 75 anni dalla fine della guerra, erano stati invitati i più importanti leader del mondo. Il 22 aprile avrebbe dovuto tenersi il referendum per approvare le modifiche costituzionali destinate a cambiare il bilanciamento di poteri nel Paese e a garantire al presidente, che finirà il suo mandato nel 2024, di essere l’arbitro delle sorti della Russia fino al 2036. Invece Putin si trova a fronteggiare una emergenza sanitaria senza precedenti e una situazione economica già zoppicante a cui il coronavirus potrebbe dare il colpo di grazia.

Nel suo terzo intervento pubblico in pochi giorni, il presidente ha ribadito il supporto economico soprattutto per le piccole e medie imprese, che vedranno i loro debiti spalmati su oltre un anno, il pagamento delle imposte, eccetto l’Iva, rimandato di sei mesi e un piano occupazionale per prevenire un’ondata di disoccupazione in un Paese già in sofferenza in tema di sicurezza sociale. Tutto aprile sarà considerato un mese di «ferie retribuite», con bonus, da aprile e maggio, da 320 a 1.000 dollari per infermieri, medici e tutte le figure professionali impegnate nell’emergenza.

Eppure, nonostante questi provvedimenti, la Russia rischia la recessione peggiore degli ultimi decenni. Di certo il periodo economicamente più duro da quando Putin è al potere. Le stime che trapelano dagli ambienti lavorativi parlano di una contrazione del Pil dal 3 al 5%, ma gli economisti temono che potrebbe arrivare anche al doppio. «Il momento è delicato, ma non prevedo che possa trasformarsi in crisi politica» conferma a Panorama l’analista politica Tatyana Stanovaya. Certo, questa battaglia può trasformarsi nella sua consacrazione o segnare il punto di partenza del suo declino, con il distacco dell’elettorato».

Il numero uno del Cremlino, però, sta sfruttando quest’emergenza anche per riposizionare il Paese sullo scacchiere internazionale. L’invio di aiuti negli Stati Uniti e le telefonate con Donald Trump sono in funzione anti Pechino, con cui l’intesa sembra essersi definitivamente incrinata. La lotta al Covid-19 dentro i confini nazionali continua, ma lo zar non viene certo meno al suo stile. E pensa già al dopo.

Marta Ottaviani

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